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"Classi dirigenti e modernità", di Alfredo Reichlin

La sinistra non è contenta di se stessa. Si lamenta, si divide. Per tante ragioni comprensibilissime ma (a mio parere) per una sopra tutte: perché troppi leggono il mondo con gli occhi del passato. Perché il consenso per Renzi ci sorprende? Su questo tema veramente cruciale del rinnovamento, che se non ha una guida può portare l’Italia a una crisi di regime, vorrei dire qualcosa. Parto dalle cose di oggi. Dalla drammatica situazione in cui l’Italia continua a essere immersa. Un Paese che da un lato è sotto il peso di una crisi economica epocale, che non è congiunturale ma che lo rimette in discussione come grande Paese industriale e società del benessere. Dall’altro che non riesce a fare il salto nella modernità. Perché di questo si tratta. La modernità. Cioè non il «nuovo» (il banale cambiamento delle cose) ma quella rara vicenda in cui si apre una nuova storia e la politica – se non lo capisce – diventa vana chiacchiera condita con ostriche e champagne per le mezze calze. Io credo che di questo si tratta. Siamo rimasti indietro di venti anni (la imperdonabile colpa di Berlusconi) e se la gente non ha più fiducia nella politica non è perché è qualunquista, ma perché sente che la stanno tagliando fuori dal mondo nuovo che avanza.
Di questo si tratta. Così – a mio modesto parere – dovrebbe parlare il capo della sinistra. Noi vogliamo governare non per sete di potere ma perché sentiamo la responsabilità di evitare che l’Italia faccia la fine del ’600. Si formava allora l’Europa moderna delle grandi monarchie continentali e noi divisi tra venti staterelli stupivamo il mondo con il lusso delle piccole corti e le invenzioni dei grandi avventurieri: i Casanova, i Cagliostro. Così di nuovo accadde 20 anni fa con Berlusconi. Così potrebbe accadere oggi. Il problema che sta di fronte agli italiani è di una chiarezza assoluta. Sotto i nostri occhi si sta compiendo un nuovo grande balzo nel moderno. Parlo della formazione di una sorta di super-Stato europeo il cui potere sulle nostre vite quotidiane è già enorme. Ce ne siamo accorti? Come va l’Italia a questo appuntamento? Con quale idea di sé e del suo destino, con quale raggruppamento di forze politiche e sociali? Con quale asse di governo, cioè con quale patto politico capace di tenere insieme il meglio delle sue risorse, che alla fin fine sono quelle del lavoro e dell’impresa, del saper fare e della solidarietà sociale? Ecco perché sono molto preoccupato. Perché questo è il tema che rischia di essere smarrito nella confusione delle primarie del Pd e nelle dispute sull’agenda Monti. Cerchiamo di non smarrire il tema delle grandi scelte e quindi delle vere alternative tra vecchio e nuovo che stanno davanti al Paese. L’altro giorno ero all’assemblea Svimez. Lo stato del Mezzogiorno che usciva da quelle analisi era semplicemente catastrofico: dalla chiusura delle ultime grandi fabbriche, alla metastasi della corruzione, al collasso della vita civile (legalità, diritti, scuola, servizi sociali) fino ormai a un impoverimento tale del tessuto umano per cui un milione e mezzo di persone, soprattutto giovani e ceti acculturati sono emigrati negli ultimi anni. Hanno abbandonato la terra dei loro padri. Il problema che balzava agli occhi era chiarissimo, ed era straordinariamente politico; non era il deficit di trasferimenti ma il rischio che il Mezzogiorno finisca sempre più

ai margini della nuova Europa che, di fatto, sta già ridisegnando le sue frontiere non soltanto economiche. Dentro o fuori? Stiamo attenti, si stava parlando del 40 per cento del Paese, dei luoghi della civiltà greco-romana, di Napoli e di città come Siracusa dove migliaia di anni fa la gente andava la sera al teatro per ascoltare la tragedia di Sofocle mentre il popolo padano viveva ancora nei boschi e adorava il dio Po. In quella mattinata gli economisti ci sommersero di cifre e di tabelle e il ministro fu bravissimo nel dire come qualcosa si poteva fare subito. Ma i politici tacquero. Che cos’è una classe dirigente se non è in grado di rispondere a interrogativi come questi dai quali dipende davvero il futuro dell’Italia?

Mario Monti si è dichiarato disposto, se richiesto, a non abbandonare il suo impegno politico. Il che non mi sembra una cattiva notizia, trattandosi dell’uomo che grazie a noi e insieme a noi ha lavorato per evitare all’Italia la bancarotta. Comunque si vedrà, decideranno gli elettori. Ma ciò che mi chiedo è perché parliamo tanto di Monti e non parliamo di noi? Noi non siamo l’ultima propaggine della vecchia sinistra che difende la sua residua identità facendo opposizione a Monti. La nostra «agenda» è più ricca di quella di Monti. Basti pensare che noi siamo un pezzo della formazione di una nuova cultura politica europea. Cioè di quella corrente politica e ideale alla quale spetta sgombrare il campo dalle macerie dell’orgia speculativa di questi anni e indicare le nuove vie dello sviluppo. Qualcosa che va oltre l’«agenda Monti». Conosco le enormi difficoltà, mi tengo cara la collaborazione delle grandi tecnostrutture europee ma io parto dall’idea che, finalmente, i grandi irrisolti problemi italiani (ne cito tre, essenziali: la corruzione, la caduta della produttività del sistema, il rischio che la metà meridionale del Paese si stacchi dall’Europa) vanno ormai chiamati col loro nome. Non sono problemi tecnici ma nodi storico-politici che richiedono nuovi patti sociali, formazione di classi dirigenti, e quindi larghe alleanze. Il Pd collabora con Monti, ne ha grande stima ma porta dentro di sé ben altre storie. Per esempio quella di Di Vittorio. L’Italia unita non l’hanno fatti i tecnici dell’Ocse ma uomini come questi. Di Vittorio era un grande uomo di governo perché ha dato ai lavoratori italiani il senso della loro missione e delle loro responsabilità nazionali, ma anche perché aveva una idea moderna della politica. La politica come nuova soggettività anche sociale perché solo la politica può unire questo Paese e dare voce anche agli ultimi, a quelli che stanno sempre sotto.

Come si può ricostruire un Paese come l’Italia se non si forma una nuova classe dirigente che abbia un pensiero autonomo sulla nazione e una sua visione dello sviluppo? E come si può formare questa classe dirigente se la politica, sia pure con facce nuove, è sempre la stessa cosa. L’eterno ritorno del sempre uguale: i mercati governano, i tecnici eseguono, i politici vanno in televisione a esibire se stessi. Il popolo resta sempre sotto.

L’Unità 02.10.12