attualità, politica italiana

"Che cosa blocca il Paese", di Luca Ricolfi

Ultimamente, non posso nasconderlo, mi è capitato più volte di provare un moto di solidarietà, o quantomento di comprensione, per le cosiddette «parti sociali», Cgil e Confindustria innanzitutto. Che cosa sta succedendo, infatti?
Da alcune settimane sta succedendo che il nostro governo, resosi conto di aver usato la mano troppo pesante sull’economia e di non avere alcuna risorsa, tesoretto o altro da mettere sul piatto, sta caricando sulle parti sociali – sindacati e organizzazioni degli imprenditori – una responsabilità molto maggiore di quella che sindacati e industriali possano assumersi. L’invito a mettersi d’accordo per aumentare la competitività dell’Italia («dobbiamo abbattere lo spread della produttività») è solo il punto di approdo di una strategia comunicativa che va avanti da tempo. Prima c’era stata l’imperiosa esortazione del ministro Fornero agli imprenditori a investire («noi abbiamo fatto la nostra parte, ora tocca a voi»). Poi, alla Fiera del Levante, l’invito del premier a «cambiare mentalità». E infine, giusto ieri, l’attacco di Monti allo Statuto dei lavoratori, che avrebbe danneggiato la creazione di posti di lavoro.

Anche se Monti ha detto una cosa al limite della banalità, ovvia per qualsiasi studioso non troppo ideologizzato, capisco la reazione di Susanna Camusso, secondo cui le parole del premier sono «la dimostrazione che questo governo non ha idee su sviluppo e crescita» e ormai «ha esaurito la spinta propulsiva». Capisco la reazione perché essa rivela uno stato d’animo che, a mio parere, non è di una singola parte sociale, ovvero la Cgil o il mondo sindacale, ma è di tutto il mondo del lavoro, sindacati, imprenditori, artigiani, partite Iva, insomma di chiunque stia sul mercato. Nessuno lo dice esplicitamente, perché Monti è una persona seria e rispettata, ma l’impressione è che le parti sociali si sentano prese un po’ in giro. Dopo aver detto peste e corna della concertazione, il governo le convoca e le invita a concertare per salvare il Paese, come se un accordo fra Confindustria e sindacati sulla produttività potesse dare un contributo decisivo a farci uscire dalla crisi.

A mio modesto parere le perplessità delle parti sociali sono largamente giustificate. E’ chiaro che ogni accordo sulla produttività è benvenuto, e saremo grati a Confindustria e sindacati se ne troveranno uno efficace. Ma la dura realtà è che le parti sociali, anche impegnandosi al massimo, anche rinunciando a ogni egoismo, possono fare pochissimo. L’espressione stessa «produttività del lavoro» è profondamente fuorviante. Suggerisce che il prodotto dipenda essenzialmente dall’impegno dei lavoratori, e che la scarsa produttività sia dovuta a impegno insufficiente, scarsa meritocrazia, cattivi incentivi. Non è così. La produttività è bassa e stagnante innanzitutto perché il sistema Italia ha dei costi smisurati, che nessun governo è stato in grado fin qui di rimuovere.

Costi degli input del processo produttivo, innanzitutto. Facciamo un esempio concreto e di estrema attualità: il caso di un’azienda che ha un grande input di energia elettrica, e che non è sussidiata come Alcoa. Qual è il suo valore aggiunto? Poiché il valore aggiunto è la differenza fra i ricavi e i costi, il fatto di pagare l’energia 100 anziché 50 dilata i costi e contrae il valore aggiunto. Ma la produttività non è altro che il valore aggiunto per occupato, quindi il fatto di pagare l’energia uno sproposito abbassa la produttività del lavoro, e questo a parità di impegno dei lavoratori. Lo stesso discorso potrebbe essere ripetuto per decine di altre voci di costo delle imprese italiane (assicurazioni, burocrazia, prestiti bancari, etc.), che fanno lievitare i costi e quindi abbattono la produttività. Anche per questo «La Stampa» e la Fondazione David Hume stanno conducendo la loro inchiesta su «Che cosa soffoca l’Italia».

Non è tutto, purtroppo. La produttività dipende anche dai macchinari e dalle tecnologie con cui i lavoratori operano. Cento operai con macchine moderne producono più pezzi che cento operai con macchine obsolete. Cento impiegati con una contabilità ben informatizzata sbrigano più pratiche di cento impiegati che usano ancora la carta, o che lavorano con un software di bassa qualità. Ma le tecnologie dipendono dagli investimenti, e gli investimenti li fanno gli imprenditori, non gli operai e gli impiegati di cui pretendiamo di misurare la produttività. Ha dunque ragione il ministro Fornero che invita gli imprenditori a fare la loro parte investendo di più?

Direi proprio di no, anche gli imprenditori hanno molte ragioni per essere irritati. Non tanto per l’insufficienza di sgravi e incentivi agli investimenti in ricerca e sviluppo, bensì per la elementare ragione che per investire ci vogliono due condizioni: una domanda che tira e un regime fiscale che lasci ai produttori una quota ragionevole del loro profitto. Invece la domanda va malissimo in quasi tutti i settori, e la tassazione del profitto commerciale in Italia (68.6%) è fra le più alte del mondo, ed è addirittura la più alta fra quelle dei 34 Paesi appartenenti all’Ocse, l’organizzazione che riunisce le economie avanzate.

La realtà, purtroppo, è che la crescita dipende dalla produttività, ma la produttività dipende pochissimo dalla buona volontà delle parti sociali e moltissimo dai costi che i produttori sono costretti a sostenere, essenzialmente costi degli input e costi fiscali. Su questo fronte, purtroppo, l’azione del governo ha peggiorato e non migliorato la vita a chi produce ricchezza. Può darsi che non si potesse fare diverso. Ma come stupirsi se alle parti sociali suona un po’ strano che, dopo essere state vessate «per salvare il Paese», ora si faccia intendere che a salvarci debbano essere proprio loro, e che per la salvezza possa essere decisivo un accordo sulla produttività.

La Stampa 14.09.12