Il decreto “milleproroghe”, convertito in legge la settimana scorsa, contiene una novità importante per il mondo della ricerca: passa infatti da quattro anni, in totale, a sei il periodo nel quale si può essere titolari di assegni di ricerca presso le università e gli enti pubblici di ricerca. Sono stata promotrice di questa proposta dopo molte riflessioni, ben cosciente di quanto la materia sia spinosa. Da un lato, infatti, la proroga potrebbe essere interpretata come un mero incentivo al prolungarsi di un precariato già di per sé lunghissimo. Da un altro lato, però, c’è da considerare che sono già passati quattro anni dall’approvazione della legge 240 (Gelmini), quindi, tantissimi assegnisti nel corso del 2015 sarebbero stati definitivamente espulsi dal mondo della ricerca pubblica, senza aver avuto alcuna possibilità di essere messi alla prova per il passaggio a posizioni di ruolo, o almeno a posizioni più tutelate – ancorché a termine – come quelle di ricercatore universitario a tempo determinato. Per molti di loro sarebbe rimasta un’unica alternativa realmente possibile per continuare a far ricerca, quella amara di emigrare all’estero come decine di migliaia di altri hanno dovuto fare negli ultimi anni. Peraltro questa situazione degli assegnisti si ripeterà tra poco con altri precari sui quali sta per abbattersi la tagliola del limite massimo di dodici anni di precariato stabilito dalla legge Gelmini.
Gli impegni mancati della Legge Gelmini
Peraltro, molti impegni dalla legge Gelmini, presi sulla base di premesse evidentemente sbagliate come a suo tempo sostenemmo inascoltati, non sono stati mantenuti.
Le tornate di abilitazione per concorrere alle posizioni di professore sarebbero dovute essere quattro e invece se ne sono svolte faticosamente solo due. Il piano straordinario di assunzioni di professori associati continua a languire. I posti di ricercatore a tempo determinato, inventati dalla legge, si sono rivelati più rari dell’araba fenice, soprattutto quelli definiti pomposamente “in tenure-track”, che dovevano rappresentare il gradino di ingresso nella carriera docente e che si sono ridotti a poche centinaia in tutta Italia, a fronte di decine di migliaia di assegnisti di ricerca, per non contare le altre figure in attesa ancora più precaria. Le scelte di finanza pubblica hanno fatto il resto. Penso, in particolare, al blocco parziale del turn-over introdotto nel 2008 – poi lievemente allentato nel 2013, ma che durerà almeno altri tre anni – che ha progressivamente ridotto al lumicino le possibilità di reclutamento da parte delle università, falcidiando parecchie migliaia di posti di docente. Ma penso anche ai “punti organico”, trionfo di automatismi tecnici di asfissiante centralismo, che hanno reso più difficile ogni programmazione degli organici, rendendo ancora più incerte e casuali le prospettive di chi volesse dedicarsi alla carriera universitaria.
In una tale drammatica situazione ci è sembrato quindi preferibile offrire qualche spazio vitale agli assegnisti giunti a fine periodo piuttosto che abbandonarli al loro destino, gettando al vento anche le loro competenze e capacità di ricerca maturate sul campo.
In futuro figura unica pre-ruolo e piano straordinario assunzionale
Siamo comunque consapevoli che la norma del “Milleproroghe” seppur necessaria non sia risolutiva. Ecco perché sarebbe invece urgente mettere a punto un provvedimento organico per riordinare l’intricatissima situazione del pre-ruolo universitario sulla base di due principi. Il primo, che già proponemmo nel 2009, è la definizione di un’unica figura contrattuale di chi svolge ricerca nelle università senza far parte del personale docente di ruolo o in tenure-track, quale che sia l’ente finanziatore. Una figura contrattuale che, oltre a godere di tutte le ordinarie coperture previdenziali, sanitarie e sociali di un lavoratore a tempo determinato e di retribuzioni crescenti con l’anzianità, goda anche dei diritti basilari del mondo della ricerca, quali ad esempio gli spazi di autonomia spettanti a veri professionisti della ricerca e quindi la possibilità di giocare in prima persona, sulla base delle proprie capacità, nel proporre progetti di ricerca e nell’assegnazione di fondi competitivi. Ovvero anche il riconoscimento della loro presenza nei dipartimenti universitari e nei loro organi di governo. Insomma, una piena consonanza con la Carta Europea dei Ricercatori.
Il secondo principio è che nessun intervento che aspiri a essere organico e definitivo può prescindere da un piano straordinario di assunzioni nelle università e negli enti di ricerca, a tutti i livelli. Solo ridando una congrua dimensione ad ogni stadio di carriera e una costante fluidità ai suoi meccanismi interni si può sperare di ridare all’università italiana quella stabilità di regole e di finanziamenti che è la garanzia primaria per poter condurre degnamente ed efficacemente un’attività di insegnamento e ricerca ad alto livello.