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"Il sorriso del male", di Adriano Sofri

Era quello che la Norvegia si augurava. È vero, tuttavia mi dispiace che si dica così. Mi dispiace che si insinui un dubbio sul tribunale norvegese. Il dubbio, cioè, che i giudici abbiano fatto prevalere l’intenzione di andare incontro al desiderio di un popolo. Anche in quel popolo del resto il dubbio era stato lacerante via via che le perizie di psichiatri e medici e psicologi ed esperti di ogni genere si dividevano sulla mente di quel loro inspiegabile ripugnante concittadino. La prima reazione era inevitabile. Non solo perché si vuole scongiurare un male troppo grande, allontanarlo da sé, consegnarlo all’altro mondo della pazzia e dell’irresponsabilità. Ma anche perché la ragione rilutta ad ammettere un’enormità inimmaginata: che cosa considereremo pazzia, se non è pazzia la strage fredda e compiaciuta di decine e decine di persone inermi, di ragazze e ragazzi, e il rimpianto ripetuto, proclamato — ancora ieri, e quel sorriso — per non averne uccisi molti di più. Per non averli uccisi tutti.
Che cosa è pazzia, se non questo? Poi, piano ma tenacemente, si è fatto strada un altro pensiero. Non è vero che il male troppo grande debba per forza essere irresponsabile. Non è vero che sia demoniaco, e caso mai demoniaco non vuol dire invasato e innocente. Il male e il bene si scelgono. C’è una pazzia — la chiamiamo così, gli esperti hanno una nomenclatura scrupolosa e vasta, i norvegesi le si sono addestrati lungo tutto un anno — che fa uscire gli umani da sé e fa compier loro atti che li lasceranno, una volta tornati in sé, attoniti e stremati. È una gran conquista quella che esonera dal giudizio penale chi sia stato sequestrato a se stesso dalla propria ossessione. Ma Breivik ha inteso e voluto fare esattamente quello che ha fatto, con quella riserva, che avrebbe voluto farlo di più.
L’ha voluto per i lunghi anni della preparazione meticolosa, per le brevi interminabili ore della sua caccia all’uomo e ai ragazzi, per tutto il tempo che è venuto dopo, comprese le giornate trascorse col sorriso di sfida e di vanità sul banco degli imputati, l’ultima volta ieri. La pazzia più oscena — Breivik è stato un campione dell’infamia che si può realizzare da soli e in tempo di pace: dategli altre circostanze, e le decine di sterminati possono diventare milioni — può andare assieme alla responsabilità. La Corte l’ha riconosciuto padrone di sé, e l’ha fatto, pare, all’unanimità, dopo un processo in cui uno spazio senza precedenti era stato dato all’esplorazione di quella mente e della sua biografia: miele per la sua vanità sfrenata. C’era in realtà un ricatto opposto che pesava sulla Corte e voleva indurla a decidere altrimenti. Era la rivendicazione dello stesso Breivik, cui si erano piegati i suoi difensori, di essere dichiarato lucido di mente e colpevole. Esigeva così di essere riconosciuto come l’antesignano intrepido e strenuo di una crociata a venire, che si sarebbe riconosciuta in lui e l’avrebbe celebrato come il proprio eroe. Ho dubitato della sincerità di questa pretesa, che gli serviva a tenersi in piedi da combattente con la stessa premura con cui si annoda le orrende
cravatte, e che magari gli faceva augurare una sentenza opposta, che ne facesse una persona da curare. Però sui giudici pesava quel ricatto: riconoscerlo come uno del loro mondo e del loro paese, uno come gli altri, che può arrivare a quel punto. I giudici sono stati coraggiosi, come si dice, ma soprattutto giusti. La loro sentenza vuol dire che la Norvegia non è più la stessa, e non vuole far finta d’essere la stessa. Che quello che le era inimmaginabile, unica attenuante a un’inettitudine terribile della risposta nelle ore della strage sulla quale anche, nei giorni scorsi, si è detta una parola finale, ora non lo è più. Che è potuto succedere, che potrebbe di nuovo. E che non sarà questione di sola prevenzione sociale e solidale, né di sola polizia. La lezione dell’enormità del suo crimine è che si può scegliere il male, si può perpetrarlo all’ingrosso, ma il male, anche il più sfrenato, non ha grandezza. Settantasette morti, innumerevoli feriti, un paese offeso, e l’autore: un miserabile. Ce l’ha fatta, si è detto amaramente, è diventato qualcuno. Non è vero.
Fuori dalla Norvegia, in particolare in Italia, dove le pene massime si sciolgono in bocca a legislatori e giudici come caramelle, una condanna massima a 21 anni sembra irrisoria. Avrà 54 anni, allora, Breivik. Forse non uscirà nemmeno allora, se avrà dato motivo di ritenerlo ancora pericoloso. Ventun anni sono lunghi, del resto. Lo tratteranno bene: anche questo da noi sembrerà oltraggioso. Non lo è. Si deve rimpiangere che non l’abbiano ammazzato mentre compiva la sua opera, un assassinato al minuto, in ognuno di quei minuti, fino all’ultimo che ha freddamente assassinato, quando già aveva chiamato più volte la polizia per avvertire che voleva consegnarsi. Dopo quel momento, si poteva solo desiderare di non vederne più la posa e il sorriso, di non sentirne più i proclami. È quello che desiderano i norvegesi, gente civile.

La repubblica 25.08.12