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"La nube mediatica sul disastro dell'Ilva", di Giovanni Valentini

La violazione delle norme antinquinamento, l’utilizzo senza regole di ogni risorsa, hanno fatto parte, come i bassi salari dei lavoratori, di una sorta di dumping ecologico con cui i capitalisti si son fatti competizione sleale a danno di tutti. (da “Elogio della radicalità” di Piero Bevilacqua – Laterza, 2012 – pag. 39). Ora che il “caso Ilva” sembra avviato finalmente a una soluzione ragionevole e proficua, in modo da conciliare il fondamentale diritto alla salute con quello al lavoro, si può provare a riflettere sulla nube mediatica, cioè sulla doppia mistificazione messa in atto intorno al disastro ambientale e sanitario che ha investito la città di Taranto. Magari per trarne anche qualche utile lezione per il futuro.
Se non fosse stato per il decisivo intervento della magistratura, impropriamente definito «esagerato», «sproporzionato» o addirittura «abnorme» da una pericolosa assuefazione all’illegalità e alla corruzione, questo scandalo non sarebbe mai esploso a livello nazionale. E se non fosse stato per la radicalità di un certo impegno civile, ispirato da un ambientalismo rigoroso e coerente, forse non sarebbe neppure diventato un caso giudiziario.
Dalle carte dell’inchiesta, emerge infatti una verità sconcertante: il disastro è stato prodotto nel corso degli anni, oltre che dall’irresponsabilità e dall’incuria di un’industrializzazione distorta, anche da una costante opera di disinformazione, occultamento delle prove e depistaggio, realizzata dai vertici dell’azienda. È perciò che a fine luglio il gip di Taranto ha mandato agli arresti domiciliari il vecchio patron Emilio Riva e suo figlio Nicola. Ed è per questo che tredici persone, tra ex dirigenti dell’Ilva, politici e funzionari pubblici, sono indagate per corruzione e concussione.
Ma, al di là dell’ambito strettamente giudiziario, l’opera di mistificazione è proseguita anche nel dibattito pubblico. Prendiamo, per esempio, il tanto invocato articolo 41 della Costituzione, brandito come un dogma di fede con la pretesa di mettere sullo stesso piano il diritto alla salute e il diritto al lavoro. Dopo aver sancito solennemente al primo comma che «l’iniziativa economica privata è libera», la stessa norma stabilisce testualmente che questa iniziativa «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Punto.
Sulla base di una documentata e inquietante relazione dei periti, l’inchiesta giudiziaria rivela invece che la produzione dell’Ilva di Taranto ha danneggiato non solo i lavoratori dello stabilimento, ma anche la comunità locale, provocando morti, tumori e leucemie a danno di uomini, donne e bambini. E continua a minacciare tuttora la salute collettiva. Ecco perché, come qui abbiamo sostenuto dal primo momento, la magistratura non poteva agire diversamente, disponendo il sequestro dell’impianto per impedire la prosecuzione del disastro: né più né meno di come si fa in caso di incidente in una centrale nucleare oppure di un edificio pericolante, bloccando i reattori o sgomberando il palazzo.
Con una buona dose di disinvoltura, il ministro Clini è arrivato a sostenere che si tratta di fatti pregressi, come se la situazione fosse definitivamente risolta e superata. Ma chiaramente non è così se la stessa azienda decide di stanziare un obolo di 56 milioni di euro, in aggiunta ai 90 già previsti, per gli interventi di bonifica e adeguamento ambientale, sebbene il medesimo ministro e i sindacati ritengano questi importi largamente insufficienti. E se la presidenza del Consiglio, dopo aver sfidato imprudentemente la magistratura con l’annuncio di un ricorso alla Consulta per un presunto conflitto di competenze, poi ha scelto più opportunamente la strada del confronto e della collaborazione, come avevamo già auspicato su questo giornale sollecitando il governo dei tecnici a evitare il rischio di complicità retrospettive.
Al di fuori dunque di ipotesi e proposte più o meno suggestive, di diktat o leggi speciali, in realtà c’è una sola via per superare il sequestro giudiziario, in modo da coniugare il diritto prioritario alla salute con il sacrosanto diritto al lavoro. Ed è quello di realizzare al più presto possibile le prescrizioni della magistratura, avviando subito il risanamento dell’impianto e concludendolo quanto prima: magari con l’impiego degli stessi operai dell’Ilva a cui va garantita la continuità salariale fino alla completa ripresa dell’attività produttiva. E in ogni caso, sotto il controllo di un custode giudiziario che evidentemente non può essere il presidente della medesima azienda sotto inchiesta. Quando sono in gioco valori indisponibili come la vita e la dignità umana, anche la radicalità – di cui lo storico Piero Bevilacqua tesse l’elogio nello stimolante saggio citato all’inizio di questa rubrica – s’impone come un obbligo morale e civile.

La Repubblica 25.08.12