attualità, cultura

“Il milionesimo profugo bambino”, di Adriano Sofri

C’È molto posto, nel deserto. Però c’è solo posto. Tutto il resto bisogna portarlo. La città di tende si chiama Zaatari, nel deserto giordano, a 12 km dalla frontiera siriana. Era seconda per grandezza nella classifica mondiale dei campi profughi, dopo Dadaab, oltre il confine somalo del Kenya; ora sarà superata da un’altra, Azraq.
Messa da parte la compassione, rende orgogliosi del nostro progresso guardare Zaatari dal computer di casa, mappe satellitari — clicca per ingrandire — filmati — il giro del campo in auto prende 20 minuti, accelerato 41 secondi — fotografie, interviste. La contabilità dell’Onu ha appena aggiornato le cifre. Due milioni e mezzo di rifugiati fuori dalla Siria, un milione sono bambini, la gran maggioranza sotto i dieci anni — orfani, ma anche affidati dai genitori a qualcuno purché li portasse via, a costo di non rivederli più — quattro milioni e mezzo di sfollati nel paese, e due milioni sono bambini.
I bambini sono i beniamini delle guerre: degli snipers specialmente. Ad Aleppo, all’incrocio di Bustan al-Qasr, racconta la Bbc, i cecchini se ne fregano degli altri, mirano ai piccoli. Totale dei morti di ogni età, 100 mila. Più o meno — più. Dei profughi il Libano trabocca, e la Giordania, la Turchia, l’Iraq, l’Egitto. E via via la Grecia, e noi… Zaatari venne su in nove giorni — appena tre in più del creato, senza riposarsi. Cresce di 2 mila abitanti al giorno, e ogni giorno ci nascono 13 bambini. Il 55 per cento degli abitanti ha meno di 18 anni, il 21 per cento meno di 5. Un quarto vanno a scuola: gli altri ci andrebbero, non ci sono abbastanza scuole. Si distribuiscono 500 mila filoni di pane e 4,2 milioni di litri di acqua al giorno, al costo di mezzo miliardo di dollari. C’è uno stradone chiamato Champs Elysées. Tutto funziona come in una vera città: ci sono anche le bande criminali e le donne sono a repentaglio.
Copi e incolli dal computer di casa. Ti pare che valga la pena. Soprattutto ti compiaci della formidabile modernità. Stai là seduto, e vedi e ascolti tutto. Pressoché in tempo reale, come si dice, e con quella precisione meticolosa — clicca per ingrandire, per impicciolire. Puoi scegliere. Attento: immagini forti, possono turbare — avverte la didascalia. Dipende da te, le guardi o no? Le guardi, sei avvisato, e sei forte. Ecco la fila coi primi piani dei bambini soffocati: la tieni per un po’, ecco, ce l’hai fatta benissimo. Poi le altre. Bene. Ne arriva una dalla frontiera aperta col Kurdistan iracheno, l’altro giorno: in groppa a un asino un uomo, una donna, un bambino che piange — è la fuga in Egitto! Ora c’è una sequenza di bambini nella tendopoli, giocano, o piangono, arriva una foto di bambina coi riccioli chiari, è allegra — e di colpo non ce l’hai fatta, somiglia a… Del resto anche i nostri bambini vedono tutto questo. Devono pensare che ci sia una congiura universale contro di loro. Anche Elsa Morante lo pensava, della Storia.
Nel nostro dopoguerra — che privilegio avere un dopoguerra, al giorno d’oggi — quello dopo il ‘45, senza fine i potenti delle democrazie negavano di aver saputo di Auschwitz, e intanto si accumulavano le prove che avevano saputo, e non avevano mosso un dito. D’un tratto quella controversia lacerante sembra futile: oggi che tutto si sa, si vede coi propri occhi, si ascolta con le proprie orecchie, non si muove un dito. Sono là, i bambini soffocati a Damasco, i bambini che crescono a Zaatari, devi solo decidere se andare avanti, o risparmiarti
le immagini forti, come avverte la didascalia.
Del resto, che cosa puoi fare? Aiutare l’Unicef, l’Unhcr, certo, e anche il governo giordano. Ricevono fondi per poco più di un terzo della bisogna. Magari apriranno una scuola in più, compreranno un altro pallone. Non è poco. E far finire quello scempio? Non può essere affar tuo. Due anni e mezzo fa, dei ragazzi manifestarono
contro il regime di Bashar el Assad, a Deraa, una cittadina di provincia. Facevano così i loro coetanei un po’ in tutti i paesi arabi. Furono imitati qua e là. La repressione dei militari li schiacciò nel sangue. Diventò di colpo un’altra cosa, una lotta per la vita o la morte. Allora era facile distinguere. C’era il dispotismo di una dinastia e di una minoranza settaria incapace perfino di immaginare d’esser messa in discussione, contro una rivendicazione di libertà. La repressione fu così brutale che si sarebbe dovuta chiamare la polizia e arrestarla. Ma il mondo non ha una polizia, e per lo più considera l’idea insensata. (Dentro i propri confini considererebbe insensato non averla: ma nelle menti ci sono confini più insuperabili dei fili spinati).
Dunque stette a guardare, e a tenere il conto degli ammazzati. Intanto i ribelli finivano nella soggezione dei loro protettori esterni, l’Arabia saudita, gli Emirati, l’Iraq sunnita, e la corte del despota si infeudava sempre più ai protettori suoi, la Russia, l’Iran, gli Hezbollah. Intanto le file dei ribelli si ingrossavano di jihadisti e qaedisti venuti da ogni parte, e la cronicizzazione della guerra civile corrompeva il Libero Esercito Siriano, e fra i suoi e i qaedisti scoppiava una guerra violenta quanto quella contro il regime. Intanto lo Stato geopoliticamente decisivo per l’intera area, la Turchia, si spaccava anche lui in due. Intanto l’Egitto precipitava anch’esso verso la guerra civile.
Ora forse Assad ha voluto sfrontatamente impiegare all’ingrosso il gas Sarin, o una sua miscela efficace. Tiene in un albergo di Damasco gli ispettori dell’Onu, incaricati di accertare se nello scorso marzo furono impiegate armi chimiche. Non da chi, badate, solo se furono impiegate: questo il loro mandato. Forse Assad ha creduto di poter chiudere la partita, e di giocare con la frustrazione dei potenti d’occidente. Su Russia e Cina può contare. Per l’occidente, chiamiamolo con questo nome d’insieme, tuttavia abusivo, finora era troppo presto per intervenire. C’era una linea rossa: l’uso di armi chimiche. Forse era già stata sorpassata, come dicono in molti. Forse lo è stata appena. Dunque è troppo tardi per intervenire. Sì, la
no-fly zone, le ritorsioni mirate, l’addestramento di qualche commando… Un giorno gli storici riguarderanno tutta questa spettacolosa documentazione che scorre senza sosta sui nostri schermi, e stabiliranno se, nei due anni e mezzo (per ora) che vanno dalla manifestazione di ragazzi a Deraa fino al bombardamento chimico alla periferia di Damasco c’era stato un giorno, e quale, in cui non era più troppo presto e non era ancora
troppo tardi.

La Repubblica 24.08.13