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“Ventimila imprese per spingere l’export. Il piano del governo”, di Daniele Taino

Se vuole uscire dalla lunga stagnazione dell’economia, diventata poi recessione, l’Italia dovrà smettere di concentrarsi sul proprio ombelico, dovrà alzare lo sguardo e puntare ai mercati esteri. Il governo Letta ne sembra convinto. In realtà, a parole lo sono tutti: l’esecutivo, però, ha individuato alcune tendenze internazionali che le imprese del Paese possono potenzialmente cavalcare e si sta dando un programma per spingerle a farlo. Una volta tanto con obiettivi misurabili. Le esportazioni, per dire, nel 2012 hanno raggiunto un valore di 474 miliardi, il 30% del Prodotto interno lordo (Pil); entro il 2015, dovranno arrivare a 545 miliardi, il 33% del Pil. Altro esempio: in Italia, ci sono almeno 73 mila aziende (stima Unioncamere) che hanno la possibilità di esportare le loro merci e i loro servizi ma lo fanno solo saltuariamente: Carlo Calenda, viceministro allo Sviluppo economico incaricato dei problemi dell’internazionalizzazione, dice che l’obiettivo del governo è trasformare 20 mila di queste in «aziende stabilmente esportatrici».

Il piano di spinta all’internazionalizzazione è stato messo a punto e approvato da una «Cabina di regia» formata dai ministeri dello Sviluppo, degli Esteri, dell’Economia, delle Politiche agricole e da Confindustria, Abi, Unioncamere, Rete Imprese Italia, Alleanza delle Cooperative, Conferenza delle Regioni. Alla base c’è l’idea che nel mondo siamo a un cambio di stagione, che la globalizzazione sia entrata nella fase due: la Cina, l’India e gli altri Paesi emergenti per un paio di decenni hanno sottratto posti di lavoro alle economie occidentali; ora sono diventati mercati in continua crescita. «Dopo anni, siamo di fronte alla possibilità di raccogliere il dividendo della globalizzazione – sostiene Calenda – I differenziali di costo sono molto diminuiti, la manifattura sta tornando in Occidente e allo stesso tempo crescono nuovi mercati. E’ un fenomeno che le imprese italiane devono cogliere».

Inoltre, uno studio effettuato dalla società di analisi Prometeia per il ministero dello Sviluppo stima che l’Italia sarebbe il Paese europeo maggiormente beneficiato da un pieno successo dei negoziati tra Ue e Stati Uniti che hanno come obiettivo la piena liberalizzazione dei commerci transatlantici (Ttip). Secondo Prometeia, le barriere tariffarie e non tariffarie tra Europa e Usa hanno un valore medio del 20%, ma per l’Italia questo arriva al 28%: una loro eliminazione, dunque, avvantaggerebbe più le imprese italiane che non quelle tedesche, francesi, spagnole e britanniche. «Soprattutto per tessile, pelletteria, oreficeria, macchine utensili, alimentari», dice Calenda. L’export complessivo dell’Italia aumenterebbe dello 0,5%. Per cavalcare queste tendenze, la Cabina di regia si è data alcuni obiettivi.

Di base, interventi di breve periodo e non strutturali da parte dello Stato non hanno impatti significativi sull’economia. Rispetto alla necessità di migliorare la capacità dell’Italia di attrarre investimenti – un altro obiettivo del governo Letta che però si scontra con ostacoli giganteschi come la forza respingente della burocrazia e la lentezza della giustizia – il piano di internazionalizzazione ha però qualche chance in più: alcuni limiti del sistema produttivo possono essere affrontati. Ecco come.

Uno studio presentato nei giorni sorsi dal Comitato Leonardo, dall’Ice (Istituto per il Commercio estero) e da Prometeia servirà da base per individuare i mercati emergenti internazionali con le caratteristiche più favorevoli alle imprese italiane: analizza una serie di variabili del Paese – popolazione, Pil, Pil pro capite, ricchezza di materie prime, infrastrutture, capitale umano – e le rapporta ai diversi tipi di aziende italiane per disegnare una mappa delle opportunità. Per esempio, nei prodotti di consumo i target – oltre ai soliti Bric, Brasile, Russia, India, Cina – sono Emirati Arabi, Cile, Malaysia, Qatar, Arabia Saudita, Messico, Marocco, Serbia, Kazakistan, Angola. In vista delle liberalizzazioni transatlantiche, poi, l’Ice svilupperà un intervento sul sistema distributivo degli Stati Uniti con l’obiettivo di creare, già prima che l’accordo Ttip venga firmato, il terreno favorevole all’incremento dell’export italiano. In ottobre partirà un road show per l’Italia con lo scopo di coinvolgere le aziende potenzialmente esportatrici e dare loro gli strumenti per diventarlo su basi stabili. Ancora l’Ice metterà a disposizione un numero di «export manager», che potranno essere utilizzati dalle aziende anche su basi temporanee. Dovrebbero arrivare maggiori risorse alla promozione dell’Italia. Oggi i fondi nazionali sono pari a 28 milioni, che si confrontano con i 170 della Germania, i 150 della Francia, i 140 della Spagna: l’obiettivo è intervenire in 60 Paesi (dai 40 attuali) e di sviluppare attraverso l’Ice 800 iniziative (rispetto alle 300 di oggi).

Saranno poi organizzate – secondo il piano – «missioni di sistema» (visite commerciali miste tra governo, con presidente del Consiglio, e imprese) in Cina, Emirati Arabi, Brasile, Stati Uniti, Canada, Messico, Angola e Mozambico entro il 2014. In parallelo, si terranno missioni di settore e incontri commerciali bilaterali con obiettivi specifici. L’Ice è già stata ristrutturata nel 2012 dal governo Monti. La Sace (assicurazione del credito) e la Simest (sostegno alle imprese che investono all’estero) verranno potenziate e rese più efficienti. Il prossimo febbraio, ci sarà la verifica per capire se la Cabina di regia e il piano funzionano. E se, nella Globalizzazione.2, l’Italia ha qualcosa da dire.

Danilo Taino