attualità, politica italiana

“Il vicepremier è ancora in bilico”, di Francesco Bei

Respinta la «sfiducia politica» al ministro dell’Interno, quella presentata dalle opposizioni e che avrebbe travolto l’intero governo, nella maggioranza non si considera affatto chiusa la questione Alfano. Sarà per il timore di nuove rivelazioni sullo scandalo kazako (una paura che pervade anche il Pdl), sarà perché la posizione del vicepremier è ormai oggettivamente troppo indebolita, nel governo ancora si parla di dimissioni del segretario del Pdl.
Potrebbe sembrare paradossale insistere su questo punto proprio nel giorno in cui la maggioranza si è ricompattata a difesa del vicepremier.
Eppure sul tavolo c’è di nuovo la questione Alfano. Anzi, il fatto che il governo di larghe intese si sia dimostrato in grado di respingere gli assalti di grillini e vendoliani potrebbe dare ora al premier la forza sufficiente per procedere all’operazione.
In fondo su qualcosa di simile Letta aveva già ragionato prima di partire per Londra. La soluzione, poi scartata per i troppi rischi che comportava, gli era stata prospettata come via d’uscita per salvare capra e cavoli. Dall’area dalemiana un suggeritore aveva infatti consigliato al premier di invitare riservatamente Alfano a rimettere le sue deleghe prima del voto sulla mozione di sfiducia. Sarebbe stato «un gesto politico », una sorta di ammissione volontaria di responsabilità, dopo di che Letta avrebbe dovuto restituirgliele e Alfano sarebbe rimasto al suo posto. Una soluzione bizantina, ma che avrebbe offerto almeno un po’ di soddisfazione a un Pd in grande sofferenza. Pressato da Napolitano e incalzato da Renzi, il premier non ha potuto concedere nulla. E tuttavia, sgombrato il campo dall’insidia della mozione di sfiducia,
l’ipotesi di dimissioni volontarie di Alfano sta nuovamente circolando nella maggioranza.
Intanto, dopo aver ottenuto ieri una nuova «fiducia politica » da un partito — il suo — che gliel’ha concessa turandosi il naso, Letta ha capito che dovrà spendersi personalmente in un’operazione di ricerca del consenso perduto. Tra i suoi compiti c’è infatti quello di riconquistare il cuore del Pd. Anzitutto quello dei parlamentari, tanto che mercoledì ha deciso di intervenire all’assemblea dei gruppi di Camera e Senato.
Ma il premier sa bene che c’è anche un elettorato da convincere e rimotivare. Elettori infuriati per un Pd che ha «salvato» Alfano, militanti che in questi
giorni stanno riempiendo di rabbia e di indignazione i social network.
Letta intende rispondere anche sul piano concreto, con una serie di provvedimenti che diano un segno più di “sinistra” alla sua agenda. E così da ieri a Palazzo Chigi si è tornato a parlare di un nuovo disegno di legge anticorruzione, da presentare prima della pausa estiva. E di una normativa antiriciclaggio, come quella pensata da Piero Grasso, per contrastare la criminalità organizzata. «Cercheremo di far capire a tutti — ha spiegato il premier a un amico — che il nostro è il governo più “democratico” che oggi possa ragionevolmente far nascere un parlamento come questo».
Quanto alla richiesta di Epifani di un “tagliando”, al momento non sembra suscitare molto entusiasmo. «Il governo è questo, non voglio toccare nulla», ha spiegato Letta al segretario del Pd e a tutti quelli che lo hanno sondato per capire quanto fosse fondata l’aspettativa di un generale rimpasto di governo a settembre. La situazione è talmente fragile che mettersi a spostare caselle potrebbe provocare un terremoto generale. Il premier ha aperto un unico spiraglio, pensando al congresso del Pd: «Se dovesse uscirne un nuovo equilibrio politico sarò pronto a valutare le eventuali necessità ». Un’apertura a Matteo Renzi, ora rappresentato al governo dal solo Graziano Delrio, a cui è stato affidato un ministero senza portafoglio come gli affari regionali. Visto che già nel partito è stato fatto spazio ai renziani, se il sindaco di Firenze dovesse conquistare la segreteria, Letta sarebbe pronto a concedergli un’adeguata rappresentanza nell’esecutivo. Un modo per garantirsi una coabitazione più tranquilla.

La Repubblica 20.07.13

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“L’Angelino dimezzato”, FRANCESCO MERLO

RESTA, ma dimezzato. E non solo come ministro. Ridono infatti di lui i mezzi amici che l’hanno difeso e lo disprezzano i mezzi nemici che l’hanno salvato. E per la polizia è come il generale Cadorna che, dopo Caporetto, scaricò le responsabilità del suo tragico comando sui poveri soldati (morti): «La viltà dei nostri reparti ha
permesso al nemico …».
Ora i kazaki lo considerano ormai un dilettante incapace di gestire le conseguenze delle proprie azioni. Anche per loro Angelino Alfano ha fatto il lavoro a metà. Il dimezzamento è il suo destino.
«Alfano salvato, Alfano cucinato» dicevano dunque, ieri mattina, i berlusconiani, e non solo i falchi. La mascella serrata, le grandi mani che ancora più del solito non sapeva dove mettere, il ministro dimezzato ha ascoltato il dibattito con i nervi infiammati, impasticcandosi di quelle caramelle alla menta prescritte da Berlusconi, il quale generosamente gli ha perdonato la calvizie: «Il mio povero Angelino ci ha provato, ma in lui il trapianto attecchisce solo a metà» racconta il Cavaliere, per metà tenero e per metà malizioso. La storia del loro rapporto ancillare riempie gli archivi dei giornali: l’innamoramento
catodico di Alfano, la sua prima investitura con una telefonata, «finalmente ho trovato chi mi sostituirà in tv», e poi l’incarico di segretario tuttofare di Bonaiuti sino al rovesciamento dei ruoli, il ministero della giustizia, il famigerato “lodo Alfano”…. Schifani lo battezzò: «l’alfan prodige».
Nel Pdl con lui sono spietati e al giudizio di Previti, «se gli mozzi un’orecchia, lui ti porge l’altra», un ministro in carica aggiunge il seguente certificato di dabbenaggine politica: «La cosa più drammatica è che ha visto il turbinio di kazaki attorno al suo tavolo, ma non ha capito. Non è come Scajola, lui davvero non sapeva, perché non sa mai nulla».
E così ieri mattina il ministro dimezzato pativa le finte difese più dell’elemosina del voto nemico. Insomma ha vissuto molto male la mezza vittoria che è stata anche un mezzo funerale politico. Ma come capita spesso nella paradossale, attuale politica italiana, gli è arrivata addosso la calda solidarietà sincera di Emma Bonino, il ministro degli Esteri che, ieri mattina in aula, quando Alfano è stato finalmente assolto, si è alzata e gli ha stretto la mano e i miei occhi hanno faticato a credere che davvero fosse lei a guidare quella mano piccola e magra che, solitamente contratta come per effetto di una sostanza morale restringente, ieri mattina si espandeva nella realpolitik come per effetto di una sostanza amorale ampliante. La donna- maremoto della politica italiana, quella fiera signora che diceva un giorno «ho imparato da Marco a fare e a pagare di persona le cose che si pretendono dagli altri», ieri metteva la sua mano nella mano di Alfano e non nella mano di quella donna deportata, Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente Ablyazov. La Bonino non è insorta prima e non è volata ad Astana dopo, e non ha neppure mandato lì qualcuno di sua fiducia, non ha chiesto pubblicamente all’amico di Putin e del dittatore kazako Nazarbaev, a Berlusconi che tornava dalla Russia, di passare a prendere quella donna e riportarla nel Paese che non l’aveva protetta… Certo non ha la stesse responsabilità politiche di Alfano, ma in quella stretta di mano ha messo in gioco molto di più. Alfano è li grazie al padrinato di Berlusconi, la Bonino c’è per la sua bella radicalità, perche è stata la nostra coscienza civile, la passione e la tensione dei nervi d’Italia, la voce che faceva ballare le magnifiche parole radicali. Se a qualcuno interessasse studiare l’evoluzione più moderna del teatro dell’assurdo, se esistesse un premio teatral- politico intitolato a Ionesco, bisognerebbe certamente assegnarlo a quella stretta di mano che non era di solidarietà, ma di complicità.
E forse l’amore della Bonino risarcisce Alfano degli scherni del suo Pdl. Come ha spiegato il falco Verdini a Berlusconi: «Se il Pd non l’avesse salvato sarebbe stato meglio perché sarebbe caduto questo governo che ti vuole accompagnare in cella tendendoti per mano». Ma poi ha completato il pensiero la pitonessa Santanché: « E però, se gli avessero imposto le dimissioni, saremmo stati costretti a difenderlo davvero. E Alfano sarebbe diventato il nostro santo martire».
La storia italiana è piena di ministri dimezzati, la Dc li proteggeva costringendoli a dimissioni che diventavano immissioni a nuovo incarico. Così fu per Cossiga, per Lattanzi, per Andreotti… Sempre i dimezzati diventano infatti uomini senza pace, fuori posto anche quando, troppo tardi, lasceranno il posto, come Scajola che, proprio com’è ora accaduto ad Alfano, fu blindato dal governo Berlusconi e salvato da una mozione individuale che voleva sfiduciarlo perché aveva detto che Marco Biagi, ucciso dalle Br, era «un rompicoglioni ». E fu un insulto che, pronunziato da Scajola, faceva onore alla memoria del professore assassinato dai terroristi, perché «il rompi», nel vocabolario di Scajola, indicava l’intellettuale di tenace concetto, il competente che non cedeva, il tecnico che non attaccava l’asino dove voleva il padrone, che rivoleva le consulenze che gli spettavano e pretendeva d’essere protetto da una scorta che Scajola gli negava, e mai si stancava di spiegare, di scrivere, di mandare mail. Scajola fu salvato e dimezzato. Ma non durò.
E invece dalla prima nomina di coordinatore in Sicilia, all’ultima di ministro degli Interni, Alfano si è abituato al gusto e all’ideologia delle mezze porzioni politiche che rinvia alle mezze maniche, alla mezze calzette, ai mezzi uomini di Sciascia. Come se fosse ingombrato dalla propria interezza, Alfano raddoppia le cariche ma ne dimezza la funzione. Resta infatti coordinatore anche se in Sicilia perse le elezioni. E’ ancora delfino, ma Berlusconi gli ha tolto il quid. E’ segretario, ma la Santanché gli ha sfilato il partito, al punto che non c’è quasi mai alle riunioni ristrette convocate da Berlusconi. Verdini, la pitonessa e Capezzone sì. Il mezzo segretario no: «Alfano fa tutto per non fare nulla».
E al Viminale, per spiegarmi la differenza tra l’autorità di un ministro e il potere di un mezzo ministro, ora mi raccontano sprezzanti quanta polizia e quanti prefetti vennero coinvolti a fine giugno quando un ragazzino fregò la bicicletta di Alfano, a San Leone, la bella spiaggia di Agrigento. Beffando la scorta e le auto blu, il povero ragazzo era riuscito a fuggire, persino con più destrezza dei suoi antesignani “ladri di biciclette” celebrati da De Sica. «Vale più di tremila euro» aveva dichiarato Alfano, affranto e ferito nei suoi affetti più cari (più delle famose scarpe di D’Alema ma un po’ meno della bici del neosindaco di Roma Ignazio Marino). Secondo le agenzie di stampa, Alfano si «è subito trasformato in un perfetto detective» e in mezza giornata «ha ritrovato la bicicletta». In realtà, ha coinvolto l’Intelligence di Agrigento, i Ros, la capitaneria, i Nocs, i confidenti e forse persino gli uomini di panza. E il ladruncolo scappava e quelli urlavano. Il ragazzo ovviamente è stato preso. Ebbene, questa “smorfia” della legalità, questa parodia della polizia che arresta il pericoloso delinquente (e speriamo che qualcuno gli paghi un avvocato) fa il paio con il blitz kazako, è la stessa arroganza rovesciata, la stessa ferocia, lo stesso Alfano riflesso nello specchio di Alice.

La Repubblica 20.07.13