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"Convenzione, non cambiamo la forma di governo", di Massimo Luciani

La questione, dunque, è ora quella della Convenzione per le riforme. È legittimo istituirla? Ed è opportuno? Di cosa si dovrebbe occupare? E chi dovrebbe guidarla? Sia l’opportunità che la legittimità sono discusse.
Si dice che la Costituzione prevede già uno specifico procedimento di revisione e che il Parlamento ha dimostrato (modificando, ad esempio, il titolo V e la disciplina del bilancio) che si tratta di un procedimento funzionante, che non paralizza le trasformazioni costituzionali. Non solo. Si aggiunge che quel procedimento, essendo una garanzia della Costituzione, non potrebbe essere derogato senza mettere in discussione proprio il sistema delle garanzie, sicché sarebbe illegittimo disegnare un percorso ad hoc, da usare soltanto stavolta. Non sono obiezioni di poco conto, ma non possono essere accolte acriticamente.
Partiamo da una constatazione. La Costituzione repubblicana, sino ad oggi, non è stata oggetto di modificazioni particolarmente felici. La legge costituzionale che ha completamente riscritto i rapporti fra Stato, Regioni ed enti locali non è un esempio di sapienza. E la recente riforma della disciplina di bilancio, sebbene sia, fortunatamente, molto migliore di quanto avrebbe potuto essere stando ai progetti iniziali, ha ottenuto il discutibile risultato di cristallizzare in Costituzione una precisa dottrina economica, che invece è (a dir poco) opinabile, come è normale che sia per i precetti di quella che non è una scienza esatta. Il procedimento ordinario di revisione, dunque, non ci ha garantito più di tanto.
È vero, però, che quel procedimento non può essere modificato in modo tale da ridurre le garanzie di una discussione aperta, di un apporto delle opposizioni e di un adeguato controllo popolare. In caso contrario sarebbe inciso il cuore stesso della Costituzione. La Convenzione, allora, sarà legittima solo a condizione che tutto questo non accada e che il suo apporto offra, anzi, un surplus di garanzie. Qui, la questione della legittimità incrocia quella dell’opportunità. Certo, la Costituzione si può cambiare seguendo il procedimento ordinario. Tuttavia, in un momento come questo, nel quale è facile prevedere che il Governo avrà un percorso travagliato, non sarebbe male mettere la discussione sulle riforme costituzionali (e, mi sembra, anche quella sulla riforma elettorale) al riparo dalle polemiche contingenti sulle ordinarie scelte di indirizzo politico.
E c’è un secondo incrocio, con l’oggetto del lavoro della Convenzione. Qui si deve essere chiari sin dall’inizio. La precarietà degli equilibri politici usciti dalle elezioni di febbraio fa escludere che quella che stiamo vivendo possa essere una vera stagione costituente. Stagioni del genere fioriscono quando si consolidano passaggi epocali e ridislocazioni radicali dei rapporti di forza. Qualcuno è disposto a scommettere che quelli di oggi saranno anche quelli di domani? Meglio un po’ di sano realismo, allora. Meglio prendere atto del fatto che solo alcuni interventi sulla Costituzione sono palesemente indispensabili. I rapporti fra Stato e Regioni, certo, ma anche e forse soprattutto il bicameralismo, autentico fattore di non più sopportabile mancanza di chiarezza nella formazione delle maggioranze di governo (sulla marcia indietro quanto alla disciplina di bilancio non c’è da farsi troppe illusioni). Di questo si discuta. Su questo e ovviamente sulla legge elettorale si intervenga, senza ipotizzare trasformazioni globali della forma di governo che non possono essere disegnate dai protagonisti di un equilibrio politico così precario. Poche cose, insomma, ma decisive.
Solo una volta che si saranno chiariti questi punti sarà possibile ragionare sulla guida della Convenzione. Qui, una cosa è facile da dire. Proprio a causa della funzione di questo organismo, che dovrebbe operare da stanza di compensazione nella quale ragionare a qualche distanza dalla contingenza politica, è da escludere che a presiederla possa essere il leader di uno degli schieramenti presenti oggi nel mercato politico. Si è parlato molto di uno solo di questi leader, ma il problema trascende la sua persona ed è assai più generale. E c’è anche un altro problema. Il PDL rivendica la presidenza della Convenzione. Si tratta di una rivendicazione in astratto legittima, certo, ma in concreto discutibile. Il primo interlocutore della Convenzione, infatti, dovrebbe essere il Ministro per le riforme costituzionali. Il Ministro, però, è un autorevole esponente proprio del PDL. Non so se nelle negoziazioni per il nuovo esecutivo qualcuno abbia dato al PDL una sorta di affidamento sulla presidenza della Convenzione o se sia stato il centrodestra ad equivocare. In ogni caso, così non va, perché è evidente che sarebbe una ben strana interlocuzione quella che si avrebbe fra rappresentanti della medesima parte. Anche qui, insomma, sarebbe bene fare esercizio di realismo. E di ragionevolezza politica.

L’Unità 05.05.13