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"Governo e battaglia politica", di Claudio Sardo

Il Pd ha sbagliato, non ha vinto le elezioni, ha fallito la prova del governo di “cambiamento”, ma tuttavia non può fuggire dalla proprie responsabilità, né voltare le spalle al Paese, né sognare un anno sabbatico mentre la crisi continua a colpire i ceti più deboli e la società chiede di invertire ora la rotta delle politiche economiche. La grande coalizione che sostiene il governo Letta certifica la sconfitta della sinistra, che voleva uscire dallo stato di necessità del governo Monti e invece il suo progetto e le sue alleanze non sono stati capaci di raggiungere l’obiettivo.
Oggi sarebbe però un errore catasfrofico – peraltro un atto innaturale per i riformatori – immaginare che la ri-generazione o la ri-progettazione del Pd possa avvenire in un dibattito separato dai processi reali, dal governo delle emergenze sociali, dal conflitto politico che ancora in larga parte dipende delle torsioni della seconda Repubblica. Per questo il governo Letta è un’opportunità. Ed è una sfida che incrocerà più volte il congresso del Pd: nessuno si illuda che si possa marciare su binari paralleli.
Del resto, come potrebbero essere paralleli? Il Pd è nato anzitutto per dare una risposta alla crisi democratica del Paese, sprofondato a causa dell’impotenza populista. Ha unito i riformisti – cercando di fare sintesi tra l’intuizione dell’Ulivo e l’idea di un partito nuovo – per reagire ai pericoli di rottura dell’unità nazionale, alimentati da una destra incapace persino di darsi una regola democratica interna. Se il progetto si è inceppato, ovviamente, ci sono state colpe e omissioni, che vanno individuate e corrette. L’innovazione politica e il ricambio delle classi dirigenti sono oggi urgenti quanto la riforma delle istituzioni. Ma ciò richiede schiena dritta, umiltà, coraggio, percezione del bene comune e dell’interesse generale, e anche capacità di dare battaglia laddove il cambiamento viene ostacolato. Abbandonarsi alla depressione è una rinuncia.
La battaglia continua. Nel governo e fuori. Nessun cedimento al settarismo. Ma il governo Letta può e deve fare a meno della retorica della «pacificazione». Il collasso della seconda Repubblica non è scaturito dalla mancata legittimazione tra centrodestra e centrosinistra. Discende da un’idea sbagliata di bipolarismo, dal mito populista del premier unto del Signore, dal liberismo egemone, dalle diseguaglianze crescenti, dal conflitto istituzionale permanente, dalla distruzione programmata dei corpi intermedi e dei partiti, dalla drammatica debolezza del capitalismo nostrano (e dalla povertà della sua classe dirigente, sempre in bilico tra tentazioni antipolitiche e raffinate ingegnerie finanziarie a tutela dello status quo). Berlusconi è stato il campione di questa paralisi: non a caso negli anni dei suoi governi l’Italia è precipitata in un declino economico, competitivo, sociale, civile. Questa era ed è la ragione della battaglia politica con Berlusconi, prima ancora del suo gigantesco conflitto di interessi e dei inaccettabili tentativi di sottrarsi alla giustizia. Semmai ci fosse un orizzonte di pacificazione tra Pd e Pdl, questo sarebbe collocato nel dopo-Berlusconi: nella speranza cioè che le riforme possano aprire la strada ad un rinnovamento anche del centrodestra e ad una sua evoluzione democratica sul modello dei partiti europei.
Ma intanto vanno affrontati i problemi drammatici della società. Anche il conflitto con la destra non si svolge in un binario parallelo. Ci sono gli esodati da garantire, ci sono i cassintegrati, ci sono i precari della Pubblica amministrazione a cui scade il contratto. Ci sono le tasse da ridurre, a partire da quelle sul lavoro. Il governo è guidato da un dirigente di primo piano del Pd. Ai vertici delle istituzioni più importanti ci sono donne e uomini del centrosinistra. Nelle Regioni e nei Comuni le responsabilità maggiori sono della sinistra. Si riparte da qui. Basta piangere, perché le lacrime non serviranno come alibi.
Berlusconi dice che l’Imu va abolita, anzi va risarcita pure la tassa del 2012. Bisogna dirgli con nettezza che non è questa la priorità, che l’Imu va risparmiata alle famiglie più povere e ai ceti medi, ma che le prime risorse disponibili andranno investite per un piano straordinario del lavoro. Berlusconi rivendica la presidenza della Convenzione per le riforme. Bisogna rispondergli senza esitare che quel ruolo va affidato non a un leader politico, ma a una personalità in grado di favorire un’intesa: lui, il Cavaliere, ha già troppe volte disfatto le riforme possibili.
Il governo di grande coalizione nasce da una responsabilità istituzionale, ma non è l’eliminazione della diversità. Così vorrebbero coloro i quali lucrano sul dualismo tra politica e antipolitica, tra partiti e società civile. Ma proprio queste teorie – che peraltro favorirono vent’anni fa l’ascesa di Berlusconi – costituiscono l’impasto culturale, per opporsi al quale il Pd è nato. Berlusconi oggi porta i suoi affondo per esigenze elettoralistiche e per mettere alla prova la tenuta del Pd: guai a spaventarsi. Il centrosinistra non deve retrocedere dalla sua responsabilità verso l’Italia, né concedere al Cavaliere ciò che non gli spetta, né fare sconti di alcun tipo sul principio di legalità: Berlusconi faccia pure cadere il governo, se non gli aggrada. Enrico Letta, ritirando le deleghe alla sottosegretaria Biancofiore, ha dimostrato forza e serietà. Il Pd faccia altrettanto. Nei ministeri, in Parlamento e nel percorso congressuale che comincerà sabato con l’elezione del nuovo segretario.

L’Unitò 05.05.13