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"Start up, la creatività non basta cresciute del 20% le aziende che emigrano all’estero", di Federico Rampini

Anche le start-up emigrano. Sempre più spesso le neonate imprese innovative scelgono la strada dell’estero. Di preferenza spiccano il volo verso la Silicon Valley. E questo nuovo tipo di “fuga” — che con le imprese trasporta all’estero cervelli, idee, brevetti — ha avuto una brusca accelerazione proprio nell’ultimo anno. È il risultato di un’indagine presentata ieri nella Silicon Valley in occasione dell’Italian Innovation Day. La ricerca rivela un balzo del 20% in un solo anno, nel numero di neoimprese che hanno abbandonato l’Italia per costituire la sede sociale altrove. Nel 2012 sono state ben l’11% del totale, quelle che hanno deciso di abbandonare il nostro paese, la maggioranza ha scelto di venire negli Stati Uniti.
Corporate drain è il neologismo coniato per designare questo fenomeno che si accentua e fa da moltiplicatore rispetto ad altri drain, flussi in arrivo di talenti, risorse umane, brevetti e idee, tutti fattori riuniti dentro le start-up. Altra rivelazione importante di questa inchiesta: non è tanto la mancanza di finanziamenti a far fuggire i giovani inventori-imprenditori dall’Italia. Certo la Silicon Valley è l’Eden mondiale del venture capital, eppure questa facilità di accesso ai fondi figura solo al quinto posto tra le motivazioni della fuga. Al primo posto, col 69% di risposte nell’indagine, c’è un fattore ben diverso. E’ il “network di contatti”, seguito dalla possibilità di accesso a risorse umane di alto livello (ingegneri, programmatori, manager), e la prossimità con centri di ricerca. A loro volta, questi centri di ricerca (per lo più universitari) sono il bacino principale a cui attingere per cultura manageriale, invenzioni, reclutamento di personale altamente qualificato. La conclusione della ricerca sfata alcuni luoghi comuni. La leadership mondiale della Silicon Valley californiana non è legata tanto all’abbondanza del capitale di rischio; è totalmente indifferente ai criteri di costo (la California ha una pressione fiscale tra le più elevate degli Stati Uniti e i salari al top). Quello che rende unica la Silicon Valley è “l’ambiente”, la vicinanza delle grandi università (Stanford, Berkeley e molte altre) che forniscono materia grigia e capacità di ricerca. A loro volta queste università hanno una marcia in più grazie alla dotazione di fondi (privati più ancora che pubblici), la meritocrazia, l’apertura alle relazioni con il business.
Se la Silicon Valley accoglie a braccia aperte tante start-up italiane, però, è anche un riconoscimento della loro qualità. L’Italian Innovation Day si è aperto in un luogo simbolico, il nuovo museo di storia dei computer a Mountain View (a poca distanza dal quartier generale di Google) e rendendo omaggio a un grande italiano, Federico Faggin, che inventò il primo microchip per Intel. A organizzare l’evento è stata Mind the Bridge, la fondazione non-profit creata da Marco Marinucci (ex di Google) a San Francisco per fare da “ponte” tra California e Italia con borse di studio, premi, “scuole” d’incubazione di neoimprenditori. La ricerca è di Alberto Onetti, un altro pendolare tra Italia e West Coast americana, economista del Cresit all’università Insubria di Varese e alla San Francisco State University. Dal suo studio emerge una tenace vitalità italiana: ogni anno da noi nascono tra 800 e mille start-up. Con questo termine si definiscono imprese giovanissime (o addirittura progetti d’impresa allo stadio embrionale) ma con forte vocazione a crescere, e una spiccata tendenza all’innovazione. Le start-up sono un mondo a parte, rispetto al ben più vasto universo delle piccole imprese italiane: anzitutto perché non hanno la vocazione a restare piccole; in seguito per la tensione creativa che ne fa un motore di crescita “contagioso” verso il resto dell’economia. Tra le italiane il 49% hanno attività legate a Internet, il 22% all’informatica, restano marginali le tecnologie verdi e le bioscienze. Il Norditalia concentra il massimo di questi giovani imprenditori (52%), ma la quota del Mezzogiorno è in crescita. Il 69% di queste neoimprese decide di «stabilirsi dove il network dei contatti è più ricco».
La ricerca di Onetti va confrontata con quella realizzata in parallelo sulle start-up americane dalla Fondazione Kauffman. Ecco le differenze più significative. Nel mondo delle start-up americane le donne rappresentano un terzo degli imprenditori, mentre in Italia sono solo l’11%. Il 44% non è alla sua prima start-up, mentre da noi gli “imprenditori seriali” sono solo il 25%. Infine il 40% dei neoimprenditori innovativi di qui dichiara di «non avere incontrato alcun ostacolo nella costituzione della propria società». E questo ha a che vedere con la qualità dell’“ambiente” normativo, burocratico e legale.

La Repubblica 13.03.13