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"Quello che non abbiamo capito", di Pierluigi Castagnetti

È già stato detto tanto del risultato elettorale, ma c’è ancora da riflettere e da discutere. Un risultato oggettivamente molto preoccupante e ancor di più se si guarda alle motivazioni di chi l’ha determinato. Stanno uscendo analisi elettorali sempre più precise che aiutano a capire cosa è successo. S’è spezzato qualcosa di vitale nel rapporto fra i partiti, il Pd in particolare, e una parte della società, che rende in gran parte superate le nostre discussioni più o meno di geometria politica del tipo: bisogna spostare più a sinistra o più al centro la barra del partito. No, questo risultato ha spiazzato gli assi del dibattito politico, ponendo al centro la questione della credibilità, dell’affidabilità, dell’utilizzabilità dei tradizionali strumenti politici compreso il personale dirigente. S’è rotto qualcosa, dunque. Personalmente rivivo il clima e molte delle sensazioni del 1994. Anche allora (io ero dirigente Dc) a fronte di militanti che mi dicevano che sarebbe bastato tornare a votare per consentire a una parte di elettori di Forza Italia pentiti di tornare indietro, bastava uscire dal recinto per rendersi conto che le cose stavano in altro modo, era semplicemente iniziata un’altra fase.
Oggi mi pare sia necessario distinguere Grillo, Casaleggio e i loro disegni, su cui occorrerà fare un discorso molto ma molto serio, dai loro elettori. Dobbiamo concentrarci su questi ultimi e sulle loro motivazioni, che non avevamo intuito nella loro intenzionale dirompenza. In un primo tempo si poteva pensare che il Pd avesse pagato il sostegno al governo Monti e poi, guardando il risultato dei grandi oppositori Idv e Sel, ci si accorge che c’è dell’altro. Le due ricerche post elettorali illustrate da Luca Comodo (Il Sole 24 ore, domenica 10 marzo) e Ilvo Diamanti (la Repubblica, lunedì 11 marzo) ci fanno una fotografia spietata: laureati, diplomati, imprenditori-dirigenti, lavoratori autonomi, impiegati-insegnanti, operai, disoccupati, studenti, dipendenti pubblici, dipendenti privati, hanno tutti votato più il M5S che il Pd. Il Pd prevale solo tra i pensionati. C’è cioè un intero Paese – fasce emotivamente più suggestionabili e fasce solitamente più razionali – che ha scelto uno strumento elettorale oggetto-contundente, esplicitamente orientato a «far saltare» il sistema. Risultato: l’ingovernabilità.
Possibile che tanti laureati, dirigenti, imprenditori, non prevedessero l’effetto e, se sì, non misurassero le drammatiche conseguenze che si sarebbero abbattute su tutto e su tutti? Che neppure i ceti in qualche misura garantiti, dipendenti pubblici e privati, non si siano lasciati guidare da una qualche pulsione conservativa? Che gli operai o i disoccupati non abbiano riflettuto sul fatto che l’ingovernabilità avrebbe prodotto caos e allontanamento di ogni prospettiva di uscita dalla crisi? Sì, possibile. Un Paese che per almeno una decina d’anni ha mostrato apparente indifferenza verso il futuro, improvvisamente s’è risvegliato ed è esploso. Improvvisamente? Molto probabilmente no. Si sentiva che qualcosa stava maturando, ma non ci si è accorti che era prossima l’esplosione. Come una cosa – ha scritto Michele Serra – che fa parte del tuo campo visivo, ma non l’hai messa a fuoco.
Se allarghiamo l’orizzonte ci si accorge peraltro che il fenomeno non è solo italiano, anche se non può consolare. Quel milione di portoghesi (su 10 milioni di abitanti) che scende in piazza sotto lo slogan «la troika si fotta» (senza parlare di altri Paesi), ci dice che la crisi è quantomeno europea ed evoca in primo luogo una risposta politica europea. Gli articoli di Cuperlo, Fassina e Reichlin mettono giustamente in evidenza la necessità urgentissima di porre mano ad una nuova strategia dell’Unione. Persino economisti della solidità e moderazione di Alberto Quadrio Curzio sono giunti alla conclusione che non si possa attendere le elezioni tedesche per bloccare l’ossessione finanziaria di quel governo, che sta mettendo in ginocchio le economie del continente. Ci sarebbe bisogno, nell’Italia di questa ora, di un governo in grado di proiettarsi con forza sulla scena europea. Ma il risultato elettorale del 25 febbraio non lo consente. Anzi, proprio quel risultato ci «costringe» all’assunzione della responsabilità nuova di un discorso chiaro e inevitabilmente drammatico al Paese. Cioè al popolo italiano tutto intero. Dal Parlamento, ma oltre il Parlamento. Ciò che potevamo fare per avvicinare e avvicinarci al messaggio di M5S, Bersani lo ha già fatto. Di più non è possibile. La diversità fra chi vuole fare saltare tutto e chi ha un’idea della politica come responsabilità, non regge cedimenti culturali ed etici smisurati. E tutto ciò dobbiamo dirlo al Paese, farglielo capire bene, con modestia, forza, e chiarezza: le nostre persone (di gruppo dirigente) non sono importanti, lo stesso nostro modello di partito può essere cambiato radicalmente, ma il valore della responsabilità democratica e civile per l’oggi e per le generazioni di domani, non può essere rinunciato. Sarebbe un imperdonabile «reato simoniaco». Dobbiamo mettere il senso della nostra disponibilità estrema, il nostro cuore oltreché la nostra intelligenza nelle mani del Paese, cercando di aiutarlo a capire il processo storico in corso, e a cogliere la nostra irriducibile determinazione a cambiare l’attuale situazione di paralisi e ingiustizia, in un quadro duraturo. Dobbiamo far capire che senza governo solido, ancor più dopo inevitabili nuove elezioni, non si va da nessuna parte. E farlo con la serenità di chi sa il proprio dovere, e sa anche «che non tutto è nelle nostre mani».

l’Unità 13.03.13

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