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"L’ultima spiaggia del Celeste" , di Piero Colaprico

Dove c’era la “capitale morale”, c’è adesso Mimmo Zambetti, il primo assessore regionale beccato a comprare il portafoglio dei voti della ‘ndrangheta. Ci sono le intercettazioni, una microspia nell’auto, e i carabinieri che lo fotografano dopo l’incontro con le persone che vanno a ritirare in un’associazione politica l’ultima rata, 30 mila euro. «Bisogna fare attenzione, quando si mangia», gli dicono, e lui, l’assessore pdl, è così stressato, spaventato, che a sessant’anni scoppia a piangere, e i boss si divertono. In Lombardia, a Milano, oggi. Non nel Sud di vent’anni fa.
Roberto Formigoni, presidente della Regione, sotto inchiesta per corruzione, all’inizio sorvola la questione: «Riguarda lui, Zambetti, e non ha più le deleghe», dice. Come se bastasse. Come se non ascoltasse.
E ci vuole la Lega, in tarda serata, per fargli capire che ormai il banco della Regione può saltare: «Ho in mano le dimissioni di tutti i consiglieri e assessori della Lega e lasciamo a Formigoni la scelta se fare un passo indietro o di lato», dice Matteo Salvini. E il suo ultimatum a Formigoni sembra diverso da quelli di Umberto Bossi a Silvio Berlusconi: «O azzera la giunta, o dimissioni. Siamo consci che ad aprile si va a votare ». Si vedrà, ma intanto abbiamo visto già parecchio in questa post-Milano dove abbandonano gli affaristi senza più tanti soldi, e dove anche i clan si sbattono come precari per fare e ricevere favori e mazzette, ecco anche persone come Formigoni, o come il prefetto Valerio Lombardi, finire dentro storie e atteggiamenti che ti fanno dire: «Ma siamo ancora a Milano?».
Come non scorgere un misto di sorpresa e indignazione, di «dove siamo?», anche nelle parole pronunciate ieri mattina da un’altra immigrata, del procuratore aggiunto Ilda Boccassini: «È un fatto che la ‘ndrangheta — dice, scandendo le parole — può inquinare la vita politica in Lombardia. In questa inchiesta è acclarato che un rappresentante delle istituzioni si rivolge a un gruppo criminale, in questo caso a soggetti in ruoli apicali. Zambetti ha la consapevolezza di rivolgersi a dei mafiosi». È la prima volta che viene «dimostrato» — questo il verbo usato: dimostrato — uno scambio di voti con criminalità: «La ‘ndrangheta può incidere sulla democrazia del Paese e sulla libertà di voto», dice Boccassini, come se fosse nella Reggio Calabria con il consiglio comunale sciolto dal ministero dell’Interno e non nella metropoli più mondiale d’Italia.
Oggi, come vent’anni fa, esattamente come vent’anni fa quando c’era Tangentopoli, quando avvennero le stragi a Palermo, due parole tornano a scuotere il Paese: mafia e corruzione. Zambetti, con il suo ufficio alla Regione, seduto nella ora traballante giunta Formigoni, dentro un palazzone dove non mancano inquisiti, sembra evocarle tutt’e due. Persino al di là dei suoi demeriti. «Lo scambio dei voti — ripete Ilda Boccassini, come se fosse già in requisitoria — è devastante per la democrazia e Zambetti era un patrimonio per l’organizzazione».
Viene perciò da chiedere: qual è il patrimonio dell’altra Milano, della Milano pulita? Di quella delle istituzioni, della Milano che dovrebbe funzionare? Formigoni dice che è innocente, è un suo diritto, ma da uomo delle istituzioni non ha mai sinora sentito il dovere di spendere una parola per spiegare come mai sono due suoi amici, Piero Daccò e Antonio Simone, a prendersi con le loro avide mani ricche fette della torta che la mano pubblica, e cioè la Regione, versa a due Fondazioni, San Raffaele e Maugeri.
Come non spiega Formigoni, così fa finta di niente Nicole Minetti, consigliere e modella, pluri-intercettata, e accusata di concorso in sfruttamento della prostituzione. Franco Nicoli Cristiani, Pdl, arrestato con una mazzetta in tasca, tace allo stesso modo. Ma si è dimesso dal consiglio regionale, da dove non si dimette Filippo Penati, Pd, che aspetta per decidere se arriva o no il rinvio a giudizio. Un altro ex assessore, Massimo Ponzoni, è stato arrestato, in tutto sono tredici gli inquisiti, compreso Davide Boni, della Lega.
Allo stesso modo di costoro, nella post-Milano nemmeno il prefetto Lombardi ha voglia di spiegarsi troppo. A Milano, quando governava il centrodestra di Letizia Moratti, il pericolo erano «i negher», gli stranieri, gli zingari, gli abusivi. Anche se gli attentati non mancavano, le infiltrazioni pure, la parola ‘ndrangheta veniva pronunciata rarissime volte. Quasi mai. Così come la politica al potere pretendeva, anche Lombardi, da occhio dello Stato sulla città, provò ad andare in soccorso di questa visione miope, e disse che la mafia non controlla il territorio. Si espresse male, venne fuori il classico «la mafia non esiste».
Al potere Lombardi è sempre stato sensibile, anche quando aveva le forme di Marysthelle Polanco, compagna di un narcos appena arrestato e nel medesimo periodo anche amica di bunga bunga di Silvio Berlusconi. È rimasta leggendaria anche su Internet la telefonata, con la ballerina che entrava con l’auto nel cortile, con lui che lanciava un sonante: «Mi saluti il presidente».
Tutto questo è passato, ma ora Lombardi, prefetto di Milano, si trova impelagato in un’altra questione: quella dei soldi mandati alle associazioni solidali dal Comune gestione Moratti e «spariti». La questione non riguarda la casa che il figlio ha avuto dall’Istituto Ciechi. È — bisogna essere precisi — questa: lui ha nominato come amministratore della Fondazione Pini un tizio e questo tizio è stato arrestato. E come mai?
Perché un funzionario comunale infedele gli ha girato un contributo di 100mila euro e questi 100mila sono scomparsi. E i due, il nominato dal prefetto e il funzionario amicissimo della giunta Moratti, insieme parlavano dell’aiuto che avrebbero potuto ricevere dal prefetto. E lo vanno a trovare un giorno, e una sera lo invitano a cena con il figlio, ma Lombardi all’ultimo non va.
Ora — la domanda — ma perché un funzionario pubblico, un rappresentante del governo, non spiega alla parte di città che ha letto Repubblica come stanno le cose su questi suoi rapporti d’amicizia con un arrestato? Non immagina che, appena finito il giro degli interrogatori ai detenuti, sarà interrogato anche lui dalla magistratura? Dov’è la trasparenza? E dove sono anche quelli che la chiedono davvero?
Forse, a spiegare lo stato delle cose, può essere ancora utile un ultimo pezzo dello sconcerto dell’immigrata e procuratore aggiunto antimafia Boccassini: «Una pletora di imprenditori lombardi — questa la sua analisi, impietosa — preferisce la scelta illegale di rivolgersi al crimine organizzato, piuttosto che intentare cause civili lunghe anni» per il recupero crediti. E «chi usa metodi violenti, esce vincente sullo Stato ».
Non si denuncia e non si parla, questa è diventata Milano. Chissà se tornerà più l’altra Milano: quella che si sapeva far valere, quella di chi qui aveva cercato e realizzato un sogno, un’idea. Di chi aveva fatto fortuna o l’aveva comunque cercata, e che fosse operaio, o fosse ricco, comunque non si faceva mettere sotto. Non aveva troppa paura né dei politici, né dei criminali. Di quelli che talvolta sono la stessa cosa, anche a Milano, ormai anche a Milano.

La Repubblica 11.10.12

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“UN’ALTRA TANGENTOPOLI”, GAD LERNER

DALLA Calabria alla Lombardia, come vent’anni fa, stiamo vivendo il tracollo rapidissimo di una classe politica che precipita nel vortice di una Nuova Tangentopoli. Con un’incoscienza che misuriamo anche nella prima reazione di Formigoni all’arresto del suo assessore rivelatosi complice della ‘ndrangheta: «È un fatto grave ma ne risponde Zambetti ». Si resta attoniti di fronte a questo tentativo di minimizzare, da parte di un potente aggrappato alla poltrona, l’«inquinamento della democrazia» denunciato ieri da Ilda Boccassini. È un inutile tentativo di far sopravvivere una giunta già profondamente delegittimata da sistematici episodi di corruzione, per i quali lo stesso Formigoni è indagato.
Come già la Polverini nel Lazio, anche il presidente della giunta regionale lombarda è destinato a uscire presto di scena. I leghisti che l’hanno sorretto finora per meri calcoli di potere andrebbero incontro all’autodistruzione, perseverando in una scelta che contraddice la loro identità. Dopo decenni di rassegnazione a una politica ridotta ad affarismo, il sistema sta collassando. Dal dirigente Pdl che vuole posteggiare nello spazio riservato al disabile, e per questo gli buca le gomme dell’auto, al funzionario che lucra sulle colonie estive dei bambini, dall’assessore regionale alla Sicurezza, Romano La Russa, che affitta un suo capannone a venditori di merce contraffatta, ai capigruppo che si appropriano di denaro pubblico, fino al culmine dei voti di preferenza comprati dalla criminalità organizzata, di giorno in giorno la galleria degli orrori supera ogni immaginazione. Di questo passo torneremo al lancio delle monetine e magari al cappio esibito in Parlamento, trucchi buoni solo per allontanare la necessaria riforma della politica. Non a caso, l’apparato mediatico di proprietà dell’uomo che ha allevato questa razza predona, ha ricominciato con spregiudicatezza a cavalcare la sacrosanta indignazione dei cittadini contro la “magna casta” (è il titolo di un giornale berlusconiano che fino a ieri sparava contro le “toghe rosse”). Da Fiorito alla Minetti, i protagonisti del degrado vengono invitati a far mostra di sé nei salotti televisivi per essere sottoposti al dileggio di chi li aveva scritturati, nella speranza che il coro “tutti ladri!” stordisca l’opinione pubblica, manipolando il necessario discernimento delle responsabilità.
Gli stessi che hanno rigonfiato scandalosamente i costi della politica e hanno riempito le istituzioni di farabutti, ora si fingono nauseati in attesa di riproporsi magari come artefici della bonifica. Anche nel corso della prima Tangentopoli si comportarono così, da forcaioli, salvo rivoltarsi all’improvviso contro i giudici non appena emerso l’uomo forte della destra al cui servizio si misero in fila. Basta vedere, oggi, come hanno esaltato fin che possibile il “coraggio” della Polverini nella speranza che resistesse, per poi scaricarla. Faranno lo stesso con Formigoni. L’unica differenza è che l’uomo forte cui si aggrapparono vent’anni fa per resuscitare un sistema di potere ferito, non è più presentabile.
La Nuova Tangentopoli si manifesta in un contesto di emergenza democratica più acuta di quella vissuta nel 1992. Non solo per la recessione economica e l’impoverimento diffuso della popolazione. Ma anche perché l’influenza delle organizzazioni criminali e dei clan affaristici nelle istituzioni è ormai pervasiva, incontrastata da una politica priva di anticorpi, come dimostra l’inchiesta della magistratura lombarda. Qualcuno dovrebbe chiedere scusa a Roberto Saviano, dileggiato quando segnalò che anche in Lombardia la ‘ndrangheta controlla porzioni rilevanti di territorio e prospera con le sue attività di riciclaggio finanziario e imprenditoriale.
Dal cardinale Scola a Comunione e Liberazione, dalla destra pulita di Gabriele Albertini all’Assalombarda, c’è da augurarsi che si levi una sollecitazione univoca per indurre Formigoni a levarsi di mezzo, consentendo il ripristino di una normale dialettica democratica
sulle ceneri della giunta degli indagati e degli arrestati. Lo stesso governo tecnico deve affrettarsi, per esempio, a rimuovere il prefetto di Milano già dispensatore di favori a una delle favorite del Sultano, e ora compromesso in relazione improprie con dei corrotti da cui ha ottenuto a prezzi di favore la casa per il figlio.
La compravendita di voti controllati dalla ‘ndrangheta a favore dell’assessore Zambetti, infine, dovrebbe seppellire il tentativo di reintrodurre nella legge elettorale nazionale quel sistema delle preferenze che già tanti danni produce nella politica locale. O vogliamo forse che dalla Nuova Tangentopoli usciamo inneggiando alle manette e a chissà quale nuovo uomo forte? L’indignazione dei cittadini deve produrre un vero ricambio di classe dirigente, cioè una riforma della politica. La Lombardia che ha già vissuto la pacifica “liberazione” di Milano, ha in sé tutte le risorse per farsene battistrada.

La Repubblica 11.10.12