cultura

"La scommessa del Pd: investire sulla cultura per far ripartire il Paese", di Maria Zegarelli e Luca Del Frà

Le Officine Marconi sono fuori dalla città e dal suo cuore pulsante. Una ex fabbrica, quale luogo migliore per assemblare i tanti pezzi che compongono la macchina della cultura, mai così in sofferenza come in questi anni dove c’è stato chi la considerava addirittura superflua, perché “non si mangia”. E qui, agli «Stati generali» organizzati dal Pd i pezzi ci sono tutti, e colpisce accanto a quella di scrittori, artisti dello spettacolo, la presenza mai così numerosa degli operatori dei Beni culturali, archeologi, restauratori e architetti. Sono lavoratori, «non è una platea di partito» – come dice l’organizzatore Matteo Orfini, responsabile del settore per il Nazareno – «Sono i 450 rappresentanti che sono stati delegati in oltre 70 incontri svolti su tutto il territorio». Quello che sperano non è cosa semplice: rimettere al centro della Politica, quella con la “P” maiuscola, la cultura, proprio adesso, quando la crisi è più acuta e i morsi si fanno sentire come mai. E non è un caso, allora, se «i tassi di accesso culturale più bassi sono in Italia, Spagna, Portogallo, Grecia e Irlanda, ovvero proprio quei paesi che sono stati colpiti dalla crisi» spiega Orfini aprendo i lavori.
Giovanna Melandri, ministro per i Beni culturali dal 1998 al 2001, non ha dubbi: «Usciremo dalla marginalità soltanto se dimostreremo che le politiche culturali sono cruciali per la crescita del Paese». E a Stefano Fassina e Pier Luigi Bersani suggerisce: «Dovrebbero essere parte integrante del programma economico del partito». Fassina a sua volta non tarda a battere un colpo: «Cultura e lavoro – conclude nel suo intervento – sono facce della stessa medaglia». Nessuna lagnanza per la scarsità delle risorse nei tanti interventi, ma una massa enorme di proposte: dalla regolamentazione delle professioni culturali, alla necessità di una centralità del ministero dei Beni Culturali per la tutela del territorio, ribadita da Irene Berlingò di Assotecnici, alla necessità di un welfare per i lavoratori dello spettacolo, secondo Maurizio Roi dell’Agis fattibile con i contributi che l’Empals non riesce a erogare e accumula, alla forza politica che possono avere i modelli culturali nella vita, come ha ricordato Vincenzo Vita della commissione cultura del Senato.
«È importante che gli intellettuali abbiano risposto a questo appello – chiosa Orfini – a ritrovare la gioia dell’impegno civile per cambiare e non conservare vecchi privilegi». Che non sia una platea tenera lo dimostra Paola Stelzter, trentina scesa fino a Roma per protestare contro il sindaco di Trento, Alessandro Andreatta del Pd, che vuole tagliare i fondi alla Galleria Civica della città che rischia di chiudere: lei come imprenditrice la sostiene economicamente e come militante del Pd vuole occupare per farla rimanere aperta.
Roberto Cecchi, fresco di nomina a sottosegretario ai Beni Culturali, denuncia subito le condizioni del ministero che rischia di non ottemperare più al dettato della Costituzione e cioè la tutela che, spiega non è più per il bene culturale, ma per il paesaggio. Rilancia la creazione dei piani paesaggistici con le regioni, chiosando: «Se ne parla dal 1937».
Walter Veltroni sceglie tre temi per il suo intervento conclusivo: cose, persone, parole. Ecco la chiave da cui ripartire, quella perduta in questi anni di crescente «paura, dettata dal tempo difficile che stiamo vivendo».
Cose, persone, parole per riaccendere la connessione di energie, per immaginare «un nuovo modello di crescita e di sviluppo» e per innestare «nuovi strumenti di regolazione». E più cresce la capacità di conoscenza più crescono le aspettative. Ma è quando diminuisce la speranza di vederle realizzate che si corrono i rischi più gravi: ecco perché la cultura, dice l’ex segretario Pd, oggi deve essere intesa «come opportunità, incontro, relazione tra produzione e fruizione», ricostruendo il tessuto sociale attraverso una continua connessione tra passato e futuro, «superando l’eterno presente». E se questo eterno presente sembra un tunnel, un modo per uscirne c’è: puntare sulla conoscenza, intesa come scuola, università, ricerca, cultura. Senza timidezza «per il finanziamento pubblico della cultura».

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Intervista a Carlo Lizzani «Agli intellettuali: la politica si fa insieme senza individualismi»

Il regista di «Achtung! Banditi!» all’iniziativa del Pd: il berlusconismo ha fallito per 15 anni nel settore culturale, la sinistra ritrovi l’energia. Dopo la guerra il Paese era distrutto e dovevamo fare la nostra parte, allora abbiamo agito un po’ come una squadra, insieme: oggi non c’è questo senso di appartenenza». Lizzani Carlo, classe 1922, regista tra i protagonisti della stagione neorealista, saggista e critico: giunto nel suo novantesimo anno, è lui il grande vecchio degli Stati generali della Cultura del Pd, che si stanno tenendo a Roma.
Nella giornata di ieri ha scaldato con le sue parole il pubblico e i tantissimi delegati, e ci affida alcune riflessioni sul rapporto tra politica e cultura che negli ultimi anni si è venuto pericolosamente incrinando. I governi di centrodestra nel settore culturale hanno miseramente fallito, la sinistra ha perso quella egemonia che sembrava avere fino a venti anni fa, e gli intellettuali? La stessa parola intellettuali oggi non sembra più un complimento.
Allora, Lizzani, cosa è successo nel dopoguerra che ha reso così particolare la situazione italiana?
«Due cose fondamentali: la prima è che il neorealismo non era affatto un fenomeno naturalista, ma vi convergevano influssi diversissimi, dal surrealismo a tutte le altre avanguardie del Novecento. Il che comportava un rapporto gomito a gomito tra intellettuali diversissimi: registi, pittori, scrittori, musicisti».
E il rapporto con la politica, anzi con i politici?
«In quella generazione di intellettuali, la mia, metà si gettò nelle battaglie politiche, penso a Ingrao e a tanti altri, e l’altra metà si mise a lavorare nella cultura. A molti, come me, sembrava un arretramento, ma in quegli anni cominciarono a uscire i quaderni di Gramsci, dove scoprivamo che l’intellettuale era parte integrante della battaglia politica». L’egemonia e l’intellettuale organico, tutto questo non portava limitazione al vostro agire?
«Limitazioni direi di no. Scontri, attriti, sì. Mi torna in mente la polemica tra Togliatti e Vittorini, e quindi anche le fortissime incomprensioni e le divisioni. E poi occorre ricordare che quell’egemonia era anche un po’ regalata: il potere democristiano considerava pericolosi sovversivi registi come Germi, Lattuada e perfino Monicelli, che era iscritto al Partito Socialista ma era un feroce anticomunista. E questo solo perché affrontavano temi scottanti. In definitiva con tutti gli scontri, le scomuniche e le eresie, a me quegli anni sembrano molto più interessanti di quanto accade oggi».
E che accade oggi?
«Anche a sinistra abbiamo assistito a uno scollamento: da una parte una forma di abbandono degli intellettuali da parte della politica, dall’altra gli intellettuali hanno risposto con scelte sempre più individualiste».
In queste scelte individualiste è il modello berlusconiano che ha trionfato?
«Definirlo berlusconiano rischia di essere una semplificazione, e non ci fa comprendere un fenomeno complesso che riguarda tutti, profondamente. Ancora la generazione di Bellocchio e dei Taviani stava insieme, si concentrava su un lavoro politico che era fatto di pazienza e reciproca comprensione, oggi si fanno scelte diverse, forse più sbrigative».
Per esempio la vicinanza di molti intellettuali agli indignati?
«È un buon esempio: la cause della protesta degli indignati sono nobili, giuste, condivisibili. Ma tutto viene affrontato sull’onda di un’emozione, che sembra comodo cavalcare. Occorre anche porsi di fronte a un lavoro intellettuale, non dico risolverli, ma almeno affrontarli quei problemi».
E la sinistra, la sua classe politica non ha nulla da rimproverarsi? «Nel tempo si è sfilacciato il contatto continuativo tra politici e intellettuali e anche in questi ultimi fra loro. E così è successo che anche la vicinanza tra intellettuali e politici ha funzionato più come immagine che non come stimolo per entrambi. Ma questi quindici anni di Berlusconi ci devono insegnare che la destra ha fallito miseramente in questo settore. Così resta una enorme potenzialità di egemonia».
In che senso?
«La politica si fa stando insieme, scontrandosi e ascoltando, cose che oggi accadono sempre meno. È indubitabile che iniziative come gli Stati Generali del Pd mostrino una rinnovata attenzione alla cultura, ma poi l’impressione è che ognuno torni nel suo alveo. Non dovrebbe accadere».

L’Unità 04.12.11