attualità, cultura, pari opportunità | diritti

«Torino non può accettare questa violenza», intervista a Piero Fassino di Simone Collini

Per Piero Fassino quanto avvenuto sabato sera alle Vallette è «inaccettabile» e i responsabili dovranno essere chiamati a risponderne. Ma, aggiunge il sindaco di Torino – che già l’altra settimana e poi ancora ieri pomeriggio ha parlato con il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri per pianificare «una strategia comune tra governo ed enti locali» sul fenomeno immigratorio – l’aggressione al campo rom della Continassa è anche la «spia di un malessere che va affrontato», oltre che essere «una vicenda inquietante per molti aspetti».

Perché dice “per molti aspetti”?
«Che una ragazza di 16 anni sia costretta a inventarsi uno stupro per giustificare davanti ai genitori la perduta illibatezza denuncia una situazione di oppressione familiare a dir poco arcaica. E questo è già un fatto su cui riflettere. Che poi questa triste vicenda si traduca in occasione per un linciaggio nei confronti di persone del tutto estranee non può che suscitare grande allarme e preoccupazione».

C’è un problema razzismo a Torino?
«No, Torino è una città che ha sempre mostrato una grande capacità di accogliere e di integrare i grandi flussi migratori. In passato, tra la fine dell’800 e l’inizio del 900, quando l’industrializzazione portò grandi masse contadine dalle campagne in città, e poi negli anni 50, 60 e 70, quando sono arrivate centinaia di migliaia di persone dal sud e dal nord-est del Paese perché sapevano che qui avrebbero trovato lavoro e la possibilità di costruire una vita sicura».
Dice che anche oggi è così?
«Anche oggi è così. A Torino, su un milione di abitanti, vivono 150 mila cittadini stranieri che sono parte della vita quotidiana della città. Siamo gli unici in tutta Italia ad utilizzare nel servizio civile volontario anche giovani stranieri, perché pensiamo favorisca l’integrazione, siamo gli unici che stanno costruendo una moschea con il consenso della città, una chiesa per copti, un cimitero, visto che ci sono 50mila romeni, per chi è di religione ortodossa. Stiamo lavorando perché ciascuno possa essere riconosciuto per la sua identità».

E come si colloca in questo quadro quanto avvenuto alle Vallette?
«Si tratta di un episodio inaccettabile, inammissibile, che va condannato. Vanno accertate le responsabilità e i colpevoli devono essere chiamati a rispondere».

Però al di là delle responsabilità individuali c’è o no un ragionamento più generale da fare?
«Sì, se si pensa che quanto avvenuto dà conto di pulsioni che corrono sotto la pelle della società e che possono far arretrare rispetto all’integrazione faticosamente costruita negli anni. Soprattutto in una fase di crisi economica e di insicurezza, c’è il rischio di guardare con crescente diffidenza lo straniero, il diverso, come a un competitore se non addirittura a un nemico. In più questa vicenda è la spia di un malessere particolare che si ha nei confronti dei rom, una popolazione straniera diversa, meno stanziale. A Torino ce ne sono duemila, una parte è ospitata in campi regolari, altri vivono in campi irregolari, dove accanto a tanta povera ci sono persone dedite ad attività illecite. Questo suscita paura e pregiudizio, e il problema deve essere affrontato e rapidamente risolto».

Come?
«Mettendo immediatamente in campo strategie adeguate che tengano insieme sicurezza e accoglienza. Bisogna anche tener conto del fatto che siamo all’indomani della sentenza del Consiglio di Stato che ha dichiarato illegittime alcune norme sugli immigrati assunte da Maroni e che quindi siamo in carenza di un quadro normativo adeguato. Ho parlato già la scorsa settimana con il ministro dell’Interno Cancellieri, perché sapevo e so che la situazione dei rom è critica, a Torino come a Milano, Napoli o Roma, e mi sono fatto carico di rappresentare al ministro la necessità di una strategia comune tra governo ed enti locali per dare una sistemazione ai rom che vogliono stabilizzarsi nella legalità e di allontanare chi non lo accetta».

L’Unità 12.12.11

******

“Tra logica del pogrom e mito della verginità”, di MICHELA MURGIA
La notizia dello stupro di una sedicenne italiana ad opera di due rom sabato sera è bastata per trasformare il quartiere torinese delle Vallette nel set infuocato di “Mississippi Burning”. Solo dopo la ragazzina, terrorizzata dalla portata della reazione del quartiere, ha ammesso che non c´era nessun rom e nessuno stupro. Le cronache riferiscono che era stata invece con un ragazzo italiano, che era la sua prima volta e che era atterrita dalla possibile reazione dei familiari alla perdita della verginità.
La notizia grossa è quella del pogrom verso la comunità rom, ennesimo frutto di una cultura dove si cresce imparando a temere il diverso e lo straniero a prescindere dal fatto che sia colpevole di qualcosa. Immagino che si troverà senza difficoltà qualcuno pronto a dire che, se non era vero stavolta, lo sarebbe stato comunque la prossima. Il fatto che questa cultura negli ultimi vent´anni abbia trovato sponda politica e sia riuscita a generare sindaci, assessori, presidenti di provincia e di regione, europarlamentari e persino ministri ha aiutato molto a farla passare dal bancone del bar al sentire comune.
È anche grazie a questo se oggi in Italia c´è chi ha smesso di vergognarsi di essere razzista. La notizia che invece appare come secondaria è che una ragazzina di sedici anni ha creduto che fosse meno pericoloso e grave per lei dire che era stata violentata da due “stranieri” piuttosto che ammettere di aver fatto l´amore volontariamente con un ragazzo del posto. Non voglio pensare che una ragazza dica una calunnia simile per gioco. È assai più credibile che lo abbia fatto perché avvertiva che se avesse detto la verità, cioè se avesse dichiarato di aver fatto l´amore perché voleva farlo, sarebbe stata percepita e trattata come “colpevole” di qualcosa e sarebbe andata incontro a qualche tipo di sanzione, sociale o familiare, morale o fisica.
Qualche articolo ieri riportava l´abitudine della famiglia a farla periodicamente controllare da un ginecologo per verificarne l´illibatezza, un uso tribale che, se confermato, direbbe molte cose sul clima in cui la ragazzina deve aver concepito la sua irresponsabile e protettiva bugia. Ma è marginale. Resta comunque l´immagine di una ragazzina che nell´Italia del 2011 fatica di più ad ammettere di essere stata consenziente che a farsi passare per vittima di stupro indicando il primo colpevole credibile, magari quello la cui etnia è già in sé una sentenza: rom.
Quella ragazza non poteva prevedere che molti nel quartiere avrebbero strumentalizzato la sua falsa condizione di vittima come innesco della loro rabbia e dell´antica voglia razzista di dar fuoco ai campi rom di ogni latitudine. L´incendio dell´accampamento non è in nessun modo colpa sua. Ma è accaduto e i vigili del fuoco si sono trovati davanti non solo le fiamme, ma anche una folla decisa a impedire che l´incendio venisse spento prima di aver bruciato tutto.
Qualcuno, solidale con chi ha appiccato il fuoco a prescindere dalle responsabilità nello stupro, mi ha scritto su Facebook che era ora, che gli abitanti del quartiere sono spaventati e che se anche adesso non gli è passata la paura di uscire di casa in mezzo a tutti quegli zingari, almeno la rabbia si è sfogata.
Davanti alla cenere e alle bugie ora si parlerà di razzismo, ed è sacrosanto che avvenga. Ci si chiederà pure cosa sta succedendo nella civile e solidale Torino, ed è giusto che ce lo si chieda. Ma spero che qualcuno si faccia domande anche su quale tipo di italianissima cultura è quella che induce una giovane donna a credere che la condizione di stuprata sia per lei socialmente più vivibile di quella di chi fa l´amore perché lo ha scelto.

La Repubblica 12.12.11