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Modello danese? Ecco perché qui è impossibile» Cesare Damiano e quel viaggio a Copenaghen nel 2005 «La flessibilità unita a sicurezza da noi costa troppo», di Enrico Marro

«Già allora, sul posto, capimmo che la flexicurity non si poteva importare in Italia. Anche adesso, a chi guarda al modello danese, direi che la strada da seguire è un’altra perché troppe sono le differenze tra l’Italia e quel Paese del Nord Europa con appena 6 milioni di abitanti, dieci volte meno dei nostri, e un modello sociale e culturale molto diverso». Cesare Damiano (Pd), ex ministro del Lavoro del governo Prodi, in Danimarca ci andò per una settimana, nella primavera del 2005, a studiare il mercato del lavoro che veniva ritenuto dagli organismi internazionali il migliore del mondo.
Partirono lui, Tiziano Treu e Paolo Ferrero. I tre erano rispettivamente responsabili Lavoro dei Ds, della Margherita e di Rifondazione comunista. «Ci vedevamo a Trastevere nella casa dove allora abitavo e un giorno ci venne l’idea di andare a vedere come funzionavano le cose in Danimarca», ricorda Damiano. Il gruppetto si riuniva per scrivere i capitoli sociali del programmone dell’Unione, l’alleanza che un anno dopo vinse le elezioni portando Romano Prodi alla guida del governo. Nel quale Damiano fu ministro del Lavoro e Ferrero delle Politiche sociali, mentre Treu divenne presidente della commissione Lavoro del Senato.
Sembra un secolo fa, ma il tema sta sempre lì, all’ordine del giorno, pur in un contesto politico ed economico profondamente cambiato: come si fa a rendere il mercato del lavoro italiano più efficiente? A quale buona pratica ispirarsi?
Il modello danese, indubbiamente, ha funzionato. E non stupisce quindi che ancora pochi giorni fa il presidente del Consiglio, Mario Monti, abbia dichiarato che l’Italia guarda «con interesse alle esperienze danesi nel mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali». Parole non solo di cortesia, dopo l’incontro a Palazzo Chigi con il primo ministro danese Helle Thorning Schmidt, ma che ribadiscono la volontà dell’Italia di varare le riforme promesse all’Unione europea e annunciate dallo stesso Monti in Parlamento nel discorso programmatico.
In Danimarca, nel 2010, la disoccupazione è stata del 7,4%, ma era del 3,4% nel 2008, prima della crisi finanziaria mondiale. Ma sopratutto il tasso di occupazione è del 75%, contro il 57% dell’Italia. In media, un terzo della forza lavoro danese cambia attività ogni anno. Le imprese possono licenziare per motivi economici, ma il lavoratore licenziato riceve un’indennità tra il 70% e il 90% della retribuzione, con un tetto di 2 mila euro al mese, per un massimo di tre anni. Il sussidio è pagato in parte dallo Stato, in parte dai contributi delle imprese e in piccola parte anche dall’azienda che licenzia. Il lavoratore che perde il posto viene preso in carico da una rete di uffici di collocamento molto efficienti e ramificati sul territorio che si occupa di offrigli a ritmo serrato nuove occasioni di lavoro, impegnandosi a fornirgli anche la necessaria riqualificazione professionale. Se il lavoratore rifiuta di collaborare e non accetta le proposte di ricollocamento, perde l’indennità.
«Il ricordo che mi è rimasto più impresso — racconta Damiano — è proprio quello di questi uffici bellissimi. Sembravano degli studi di architettura: silenziosi, luminosi, eleganti, dove si svolgevano colloqui individuali tra i funzionari e i lavoratori licenziati finalizzati al loro ricollocamento. C’era uno di questi centri che aveva perfino un’officina per la formazione sul campo degli operai». Damiano, Treu e Ferrero si resero subito conto che l’Italia era molto lontana. «Quando divenni ministro del Lavoro cercai di tradurre in pratica qualcosa, ma subito vidi quali erano le difficoltà. Per esempio, misi la regola per cui se al lavoratore licenziato l’ufficio di collocamento fa un’offerta di lavoro equivalente e questi la rifiuta, perde il sussidio. Ma subito gli ispettori del Lavoro mi fecero notare che in certe realtà, in particolare nel Sud, dove la camorra controlla settori per esempio del mercato agricolo, sarebbe stato difficile applicare un sistema del genere. Insomma, parliamo di realtà molto diverse. In Danimarca c’è un’etica calvinista della responsabilità molto forte. E raramente si riscontrano atteggiamenti opportunistici delle imprese o dei lavoratori per approfittare di sostegni pubblici».
E comunque, conclude Damiano, fossimo anche uguali ai danesi, non potremmo importare la loro flexicurity, cioè la flessibilità unita alla sicurezza sociale, perché «costa tantissimo e non possiamo permettercela» con un debito pubblico del 120% del Pil, il triplo di quello della Danimarca.
Per stringere la questione all’Italia, su un punto sono tutti d’accordo: se si rendono più facili i licenziamenti, modificando l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, bisogna rafforzare il sistema degli ammortizzatori sociali, prevedendo in particolare una indennità di disoccupazione più estesa, più elevata e più duratura di quella attuale, e ci vuole un sistema di uffici di collocamento che funzionino, mentre oggi solo il 4% delle assunzioni passa attraverso questo canale. Conclusione: non ci sono le risorse economiche per finanziare un modello alla danese, né la cultura, né le strutture necessarie.
E allora? Il rischio che vede Damiano, lo stesso che vedono i sindacati, è che toccando l’articolo 18 in un momento di crisi come questo non si aumentino le opportunità di lavoro, ma si favorisca un aumento della disoccupazione. Anche l’ex ministro non può però negare che la riforma del mercato del lavoro sia necessaria. Per superare il dualismo tra lavoratori anziani garantiti e giovani precari e per innalzare il tasso di occupazione, vera anomalia italiana. Sono gli stessi problemi che c’erano al momento della missione a Copenaghen. Ma la ricetta per risolverli non può essere in salsa danese. «Tra l’altro si mangiava terribilmente», sorride Damiano. «In Italia servono sette cose: disboscare i contratti precari; ripristinare il divieto di dimissioni in bianco; estendere lo sconto Irap alle assunzioni degli over 50; adottare il contratto unico di inserimento formativo per i giovani, con un periodo di prova di tre anni durante i quali si può licenziare, ma poi si ha l’articolo 18; velocizzare il processo del lavoro; riformare gli ammortizzatori sociali; trovare una soluzione per chi a causa della riforma della previdenza resterà senza stipendio e senza pensione». Altro che flexicurity.

da Il Corriere della Sera 21.12.11