attualità, lavoro

"La libertà di licenziare non porta ad assumere le imprese: per noi è la domanda che manca", di Luisa Grion

La scarsa flessibilità in uscita non incide sulle strategie aziendali. Proprio le più grandi, dove c´è il vincolo del reintegro, assumono di più. La maggior parte non ha necessità di aumentare l´organico. Un altro 20 per cento lo farebbe se salissero gli ordini. Sondaggio Unioncamere-Excelsior sui motivi di non assunzione nel 2011 Nessuno tira in ballo l´articolo 18. Non si tratta di licenziamenti, di articolo 18, di flessibilità in uscita: il vero guaio, per le imprese italiane, è la mancanza di prospettive a breve termine. Arrivano poche commesse, i dipendenti che già ci sono bastano e avanzano, c´è la crisi dei consumi, c´è un enorme difficoltà di accesso al credito. Ecco perché non ci si lancia in nuove assunzioni: il reintegro del dipendente licenziato senza giusta causa c´entra poco e niente.
E´ questo che dicono le aziende italiane e l´atteggiamento emerge con chiarezza se si guarda all´ultimo rapporto Excelsior Unioncamere. Interrogati sulle intenzioni o meno di assumere e – nel secondo caso – sui motivi della mancata creazione di nuovi posti di lavoro, gli imprenditori danno risposte chiare. A frenare l´assunzione, è la mancanza di nuove commesse (5,7 per cento) o l´incertezza e la domanda in calo (14,1), quindi nel 20 per cento dei casi sono le condizioni di mercato a dettare la strategia. La stragrande maggioranza delle aziende ritiene che l´organico presente sia sufficiente (il che vuol dire che non ha mire espansionistiche): comunque sia, la mancanza di una flessibilità in uscita non viene nemmeno menzionata fra le prime cause del fermo occupazionale. Probabilmente è compresa nella casella «altri motivi», barrata solo dal 1,2 per cento dei centomila imprenditori che costituiscono il campione dell´indagine. E la graduatoria delle motivazioni non varia di molto se si ragiona sull´ambito territoriale o sulle dimensioni dell´azienda. In realtà, le aziende che invece assumono sono proprio quelle grandi, dove l´articolo 18 trova applicazione.
Che non sia l´articolo 18 a determinare la politica del lavoro di una azienda lo conferma anche Mario Sassi, responsabile del Welfare per la Confcommercio. «A bloccare le assunzioni sono il costo del lavoro e la crisi dei consumi – afferma – in assenza di queste due condizioni non ci può essere occupazione». Il ragionamento, precisa, vale sia per le piccole che per le grandi imprese: «intervenire sulla flessibilità in uscita senza affrontare le vere cause del problema porta ad incanalarsi in una polemica pregiudiziale e ideologica». Prima di parlare di articolo 18, secondo Confcommercio «va piuttosto affrontato il tema degli ammortizzatori sociali, che dovranno garantire un sostegno ai lavoratori che usciranno dalle aziende ma, visto l´innalzamento dell´età pensionabile, non saranno coperti da assegno». Altre priorità, secondo Sassi, sono «la formazione e l´accesso al credito: solo affrontando tutto questo si può parlare anche di articolo 18».
La questione non è di poco conto perché è vero che l´Italia è il paese delle piccole imprese, ma l´articolo 18 è applicato alla maggioranza dei lavoratori. Lo certifica la Cgia di Mestre che guardando alla platea dei dipendenti italiani assicura che «oltre il 65 per cento degli occupati – quasi i due terzi del totale – lavora in aziende con più di 15 dipendenti, quindi sottoposte alla norma».

La Repubblica 21.12.11