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"Se la corruzione si insinua in magistratura", di Vladimiro Zagrebelsky

L’ arresto di un giudice e la condanna in un non lontano passato di qualche altro sono per fortuna eventi rarissimi. Si può immaginare che esista un numero oscuro di casi di corruzione che rimangono nascosti, ma si tratta comunque di fenomeno estremamente limitato. Tuttavia è necessaria una riflessione che vada oltre i commenti sulla capacità delle organizzazioni mafiose di infiltrarsi nelle istituzioni e sulla potenza del denaro. Occorre una riflessione sulla magistratura. Naturalmente ciò riguarda anche i parlamentari, le articolazioni governative, gli enti locali, l’amministrazione pubblica, gli organi di polizia, ecc., ma per la magistratura l’urgenza e la gravità delle questioni che si pongono sono di speciale forza.

Il ruolo assegnato dalla legge ai magistrati e la larga discrezionalità loro riconosciuta nell’esercitarlo spiegano perché da essi, ancor più che da altri, si richieda personale indiscutibile integrità; oltre i confini di ciò che è normale chiedere a chi esercita altre, pur importanti, funzioni. E forte è il rilievo che assumono anche le sole apparenze, così come è sempre sottolineato da chi si occupa di etica delle professioni giudiziarie, dagli organi disciplinari e dalla stessa Corte europea dei diritti dell’uomo. I cittadini possono forse accettare l’errore dell’uomo magistrato ma non l’inquinamento di una giustizia che, anche oltre ciò che è realistico, sono portati a pensare con la G maiuscola.

Interrogarsi allora partendo dal versante di chi corrompe, non è sufficiente. Occorre anche chiedersi come sia possibile che anche all’interno della magistratura si insinui la corruzione, la pressione indebita, il favoritismo. Intendo con ciò dire che esiste un problema per la magistratura nel suo complesso.

È difficile credere che episodi di corruzione siano nella magistratura più frequenti ora che nei tempi andati (la corruzione ha tante forme). Ma quel che mi pare proprio del tempo presente è la rivendicazione da parte di molti magistrati del diritto (o addirittura del dovere) di vivere da persona tra le persone, da privato tra i privati, come tutti, senza limiti particolari, appena usciti dal tribunale. Pretesa più che discutibile, anche senza cadere in un elitarismo codino, che celebri la separatezza. Ma quella pretesa e la sua messa in pratica nello stile di vita hanno molte implicazioni. Modifica la percezione di ciò che è normalmente lecito o innocuo, ma è inopportuno o addirittura illecito per il magistrato. E rende difficile, dall’esterno, valutare il senso di certi comportamenti, di certe frequentazioni e di certi rapporti confidenziali.

Accade – è accaduto – che l’esplodere di uno scandalo coinvolgente magistrati inneschi nei loro colleghi sentimenti vari, tra cui non c’è la sorpresa. Ma in altri casi è la sorpresa, l’incredulità che prevale. L’una e l’altra situazione richiede riflessione e risposta a domande. Perché, se tra colleghi non ci si sorprende troppo se un’indagine per corruzione tocca un magistrato, non si sono attivati anticorpi per una preventiva difesa dell’istituzione? Perché, invece, se tutti cadono dalle nuvole, la vigilanza dei capi degli uffici giudiziari non si è attivata o è stata inefficace?

Nel primo caso giocano diversi fattori. Uno spirito malinteso di colleganza, una solidarietà di gruppo (i panni sporchi si lavano in famiglia: famiglia, nei molti significati del termine). E il richiamo alla presunzione di innocenza. Questa vale solo per la responsabilità penale, ma tende ora ad estendersi ad ogni genere di condotta incompatibile con i doveri che incombono in conseguenza del ruolo svolto nella società. Gli indizi che giustificano un sospetto sono quindi ignorati (o al più fanno oggetto di pettegolezzo). La pigrizia nel sollevare tra colleghi (ma qui vanno anche ricordati gli avvocati, la cui vita professionale è strettamente legata a quella dei magistrati) una questione spesso imbarazzante e difficile, viene così giustificata col richiamo a un nobile principio: la presunzione di innocenza. Che però c’entra ben poco e finisce con il legittimare silenzi, tolleranze, oggettive connivenze. Ne risulta un danno per l’istituzione giudiziaria nel suo complesso e per la sua credibilità di fronte ai cittadini.

Il secondo caso apparentemente è più semplice. Se nessuno sapeva niente, cosa si poteva fare? Ma la questione appunto riguarda la mancanza di vigilanza interna, quella sociale tra colleghi e quella formalmente prevista da parte dei capi degli uffici. Questi sono spesso ritrosi ad esercitare una funzione di vigilanza non facile. Tra una vigilanza con metodi di polizia e il tener gli occhi chiusi per viver tranquilli c’è di mezzo la funzione attenta e sollecita che consente di raccogliere i segnali, non accontentarsene, riconoscere ciò che vien fatto correre per denigrare il giudice scrupoloso e approfondire invece quel che appare serio. Perché il fatto che nessuno sapesse niente delle frequentazioni e della vita «privata» del magistrato che si scopre corrotto o a rischio di corruzione, non chiude il discorso. Ne apre invece uno diverso. La magistratura dovrebbe chiarire e sanzionare le inerzie di chi avrebbe dovuto vigilare e conoscere.

La Stampa 07.12.11