partito democratico, politica italiana

"Zagrebelsky, Monti e il governo senza partiti", di Michele Prospero

Ma che tipo di governo è quello di Monti? È forse un governo di destra? Ed è vero che comanda sempre lui? Né di destra né di sinistra, quello di Monti è piuttosto un governo di compromesso, a visibile prevalenza moderata, espresso in una fase di chiara emergenza, priva delle normali risorse della politica.
Il fisiologico sbocco di una emergenza esterna (catastrofe economica) ed interna (dissoluzione non solo della maggioranza ma degli equilibri sistemici) altrove è una grande coalizione. In Italia questa strada è preclusa per ragioni storico-politiche. Non si può infatti passare da un ventennio di bipolarismo oltranzista a una condivisione esplicita di una stagione di governo.
Questa impossibilità politica di stipulare un accordo temporaneo ha imposto un surplus di iniziativa del Colle. Lo stato di eccezione di Schmitt evocato dal Corriere della Sera non c’entra proprio nulla. Accadde così già con il governo Ciampi. Con una modica forzatura delle regole tradizionali, il capo dello Stato fu anche vent’anni fa il regista delle operazioni necessarie per attutire i contraccolpi di una caduta repentina del sistema politico.
La parentesi tecnica è più volte comparsa come l’equivalente funzionale dei governi di grossa coalizione. Si è verificata non solo in occasione della crisi di regime (governo Badoglio) ma anche nel corso della crisi di sistema politico (governo Ciampi). Il dicastero Monti è dentro questa tradizione storica che scavalca la polarità maggioranza-opposizione, silenziosa quando a naufragare non è una semplice formula di governo ma un sistema politico.
Per questo è del tutto inadeguata la definizione di Gustavo Zagrebelsky che, su Repubblica di lunedì, ha parlato di un mero allargamento della vecchia maggioranza.
Intanto, non può esserci stata una assimilazione dell’opposizione nell’alveo della destra giacché proprio quest’ultima si è dissolta. Un blocco politico che è evaporato non può inghiottire altre forze che ad esso si opponevano. La Lega ha persino rotto ogni collegamento con il Pdl. Quindi non può parlarsi di un governo di destra ampliato perché quella coalizione di destra, proprio essa, non esiste più e pertanto non può in alcun modo allargarsi oltre i suoi confini.
Dal punto di vista istituzionale, non c’è affatto la vecchia maggioranza che sopravvive con l’innesto di apporti nuovi ma si è presentata una diversa formula politica. Le forze che prima erano assenti dall’esecutivo (il Terzo Polo, l’Idv e il Pd) sono diventate la parte più cospicua della maggioranza che in aula ha votato per Monti. E il Pdl, pur essendo un partner rilevante la cui presenza scongiura un ribaltone che nessuno ha mai cercato, rimane pur sempre minoritario entro la convergenza parlamentare (non si tratta di una coalizione riproponibile) che ha accordato la fiducia al governo.
Quindi non è vero che comanda sempre lui. Magari anche nel “consiglio di facoltà” dovrebbero rammentarsene ogni tanto e mostrare più coraggio politico, senza spezzare la logorante logica della mediazione. Dove Zagrebelski vede solo la fine della politica per l’abdicazione del Pd in realtà si nasconde una scelta politica, difficile e costosa, certo, ma politica. Il Pd, che accetta l’imponderabile, non è affatto un esemplare malconcio di una politica malata. Solo un vero partito può sopravvivere a una sfida di questa asprezza, tipica della grande politica.
O Zagrebelsky pensa che per “non alzare bandiera bianca” il Pd avrebbe dovuto affrontare la prova del fuoco delle urne quando tutte le armate delle potenze mondiali erano già schierate? Non era a disposizione del Pd la strada del voto. Avrebbe dovuto scatenare le ire di sua maestà il mercato, entrare in frizione con il Quirinale, rompere con il Terzo polo e, facendosi scudo con una maggioranza negativa (con Idv e Lega), prepararsi al duello finale? L’irresponsabilità può apparire vigore ma si tratta di una illusione di potenza, alla lunga assai costosa.
Per non siglare una “autodichiarazione di bancarotta”, come scrive Zagrebelski, il Pd avrebbe dovuto imporre il voto e sbarrare la strada a un governo senza i partiti? Che la vitalità della politica sia legata all’eccezione che gode dell’emergenza sembra molto difficile da sostenere. Né un novello Celestino V che rinuncia ad una vittoria scontata per incassare una variante spuria della grossa coalizione, né un irresponsabile amante del pericolo ma un politico di grande scuola che non ha avuto esitazioni dinanzi a certi dilemmi e ha imboccato la strada giusta, questo è apparso Bersani.
Un governo di emergenza non è una scelta, è una condizione che capita e il leader del Pd non poteva scartarla senza assumere rischi incalcolabili. Imporre grandi temi di sinistra anche a un esecutivo di compromesso, questo è ora il compito. Il resto è chiacchiera.

da L’Unita del 14 dicembre 2011

******

“LA DEMOCRAZIA SENZA I PARTITI”, di GUSTAVO ZAGREBELSKY

——————————————————————————–

Ma, quando tutto questo sarà finito, che cosa sarà della politica e delle sue istituzioni? Diremo che è stata una parentesi oppure una rivelazione? Parentesi che, come si è aperta, così si chiude ridando voce al discorso di prima; oppure rivelazione di qualcosa di nuovo, sorto dalle macerie del vecchio?
Queste domande devono apparire insensate a coloro che pensano o sostengono che nulla di rilevante sia accaduto e che tutto, in fondo, sarà come prima, così forse credendo di meglio contrastare la tesi estremistica di coloro che, per loro irresponsabili intenti, hanno gridato allo scandalo costituzionale, al colpo o colpetto di stato. In effetti, chi potrebbe dire che la Costituzione è stata violata?
La scelta del presidente del Consiglio è stata fatta dal presidente della Repubblica; il presidente del Consiglio ha proposto al presidente della Repubblica la lista dei ministri e questi li ha nominati; il governo si è presentato alle Camere e ha ottenuto la fiducia; leggi e decreti del governo dovranno passare all´approvazione del Parlamento. Non c´è che dire: tutto in regola. Dovrebbero essere soddisfatti perfino coloro i quali pensano che la legge elettorale abbia sterilizzando poteri e possibilità del presidente della Repubblica.

Come il potere di ricercare in Parlamento eventuali maggioranze diverse da quella venuta dalle elezioni. Per costoro, in caso di crisi, si dovrebbe necessariamente, sempre e comunque, ritornare a votare. Quella che si è formata per sostenere il nuovo governo, infatti, non è una maggioranza alternativa alla precedente; è – di fatto – la stessa, soltanto allargata a forze di opposizione chiamate a condividerne le responsabilità. Abbiamo girato pagina quanto alle persone al governo – il che non è poco – ma non abbiamo affatto rotto la continuità politica, come del resto il presidente del Consiglio, con atti e parole, continuamente, tiene a precisare. Onde potrebbe dirsi: prosecuzione della vecchia politica con altra competenza e rispettabilità. Nelle presenti condizioni politiche parlamentari, del resto, non potrebbe essere altrimenti.
Per quanto riguarda la legalità costituzionale di quanto accaduto, nulla dunque da eccepire. Semplicemente, il presidente della Repubblica ha fatto un uso delle sue prerogative che è valso a colmare il deficit d´iniziativa e di responsabilità di forze politiche palesemente paralizzate dalle loro contraddizioni, di fronte all´incombere di un rischio-fallimento, al tempo stesso, economico e finanziario, sociale e politico, unanimemente riconosciuto nella sua gravità e impellenza. Fine, su questo punto.
È invece sulla sostanza costituzionale, sotto il profilo della democrazia, che occorre aprire una discussione. È qui che ci si deve chiedere che cosa troveremo alla fine (perché, prima o poi, tutto è destinato a finire e qualcos´altro incomincia).
Di fronte alla pressione della questione finanziaria e alle misure necessarie per fronteggiarla, i partiti politici hanno semplicemente alzato bandiera bianca, riconoscendo la propria impotenza, e si sono messi da parte. Nessun partito, nessuno schieramento di partiti, nessun leader politico, è stato nelle condizioni di parlare ai cittadini così: questo è il programma, queste le misure e questi i costi da pagare per il risanamento o, addirittura, per la salvezza, e siamo disposti ad assumere le responsabilità conseguenti. Né la maggioranza precedente, che proprio di fronte alle difficoltà, si andava sfaldando; né l´opposizione, che era sfaldata da prima. Niente di niente e, in questo niente, il ricorso al salvagente offerto dal presidente della Repubblica con la sua iniziativa per un governo fuori dai partiti è evidentemente apparsa l´unica via d´uscita. Insomma, comunque la si rigiri, è evidente la bancarotta, anzi l´autodichiarazione di bancarotta.
Di fronte a grandi problemi, ci si aspetterebbe una grande “classe dirigente”, che cogliesse l´occasione propizia per mostrarsi capace d´iniziativa politica. Sennò: dirigente di che cosa?
Si dirà: e il governo, pur piovuto dal cielo, è tuttavia sostenuto dai partiti; anzi, il sostegno non è mai stato, nella storia della Repubblica, così largo; i partiti, quale più quale meno, per senso di responsabilità o per impossibilità di fare diversamente, alla fin fine, si mostrano in questo modo all´altezza della situazione. Sì e no. Sì, perché voteranno; no, perché il voto non è un sostegno e un coinvolgimento nelle scelte del governo ma è, piuttosto, una reciproca sopportazione in stato di necessità. Il governo, timoroso d´essere intralciato dai partiti; i partiti, timorosi di compromettersi col governo. Il presidente del Consiglio ha onestamente riconosciuto che i partiti, meno si fanno sentire, meglio è: votino le proposte del governo e basta. I partiti, a loro volta, sono in un´evidente contraddizione: devono ma non possono. Avvertono di dover votare ma, al tempo stesso, avvertono anche che non possono farlo impunemente. Gli stessi emendamenti di cui si discute in questi giorni sembrano più che altro dei conati: per usare il linguaggio corrente, non un “metterci la faccia”, ma un cercare di “salvarsi la faccia”.
In questa delicata situazione, i partiti devono esserci ma vorrebbero non esserci. Per questo, meno si fanno vedere, meglio è. I contatti, quando ci sono, avvengono dalla porta di servizio. Alla fine, si arriverà, con il sollievo di tutti, a un paradossale voto di fiducia che, strozzando il dibattito parlamentare, imporrà l´approvazione a scatola chiusa e permetterà di dire al proprio elettorato: non avrei voluto, ma sono stato costretto.
Ma c´è dell´altro. In un momento drammatico come questo, con il malessere sociale che cresce e dilaga, con la società che si divide tra chi può sempre di più, chi può ancora e chi non può più, con il bisogno di protezione dei deboli esposti a quella che avvertono come grande ingiustizia: proprio in questo momento i partiti sono come evaporati. Corrono il rischio che si finisca, per la loro stessa ammissione, per considerarli cose superflue, d´altri tempi. In qualunque democrazia, i partiti hanno il compito di raccogliere le istanze sociali e trasformarle in proposte politiche, per “concorrere con metodo democratico alla politica nazionale”, come dice l´articolo 49 della Costituzione: sono dunque dei trasformatori di bisogni in politiche. Una volta svolto questo compito di unificazione secondo disegni generali, ne hanno un secondo, altrettanto importante: di tenere insieme la società, per la parte che ciascuno rappresenta, nel sostegno alla realizzazione dell´indirizzo politico, se fanno parte della maggioranza, e nell´opporsi, se non ne fanno parte. Un duplice compito di strutturazione democratica, in assenza del quale si genera un vuoto, una pericolosa situazione di anomia, cioè di disordine politico, nel quale il governo si trova a dover fare i conti direttamente col disfacimento particolaristico, corporativo ed egoistico dei gruppi sociali, inevitabilmente privilegiando i più forti a danno dei più deboli. La dialettica tra governo e società non trova oggi in Italia la necessaria mediazione dei partiti. Di questa, invece, la democrazia, in qualsiasi sua forma, ha necessità vitale.
Gli storici avrebbero molto da dirci sulla miscela perversa di crisi sociale e alienazione politica, cioè sulla rottura del nesso che i partiti devono creare tra società e Stato. Non che la storia sia il prodotto di leggi ineluttabili, ma certo fornisce numerosi esempi, nemmeno tanto lontani nel tempo: nel nostro caso, esempi – che sono ammonimenti – del disastro che si produce quando le forze della rappresentanza politica e sociale si ritirano a favore di soluzioni tecnocratiche, apparentemente neutrali, né di destra né di sinistra, al di sopra delle parti. Può essere che in queste considerazioni ci sia una piega di pessimismo, ma vale l´ammonimento: non tutti gli ottimisti sono sciocchi, ma tutti gli sciocchi sono ottimisti.
E allora? Allora, il rischio è che, “quando tutto questo sarà finito” ci si ritrovi nel vuoto di rappresentanza. Una certa destra nel vuoto si muove molto bene, per mezzo di qualche facilissima trovata demagogica. Il vuoto, invece, a sinistra ha bisogno di ben altro, cioè di partecipazione e di fiducia da riallacciare tra cittadini, e tra cittadini e quelle istituzioni che esistono per organizzare politicamente i loro ideali e interessi. Questo – altro che sparire, arrendendosi alle difficoltà – è il compito che attende i partiti che stanno da quella parte, un compito che ha bisogno di idee e programmi, strutture politiche rinnovate e trasparenti, uomini e donne di cui ci si possa fidare. Non di salvatori che “scendono in campo”, ma di seri lavoratori della politica, degni del rispetto dei cittadini di cui si propongono come rappresentanti.

dala Repubblica del 12 dicembre 2011