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"Il fruttivendolo che ha cambiato il mondo", di Domenico Quirico

Ci sono eroi più grandi, più puri delle rivoluzioni che hanno inventato, creato, fatto esplodere. Uomini di impeto e di sacrifico; perché ogni rivoluzione è l’opera di un principio e solo chi segue con imperterrita fede quel principio può compierla felicemente. Poi viene il tempo degli altri, i regolarizzatori, i garbuglioni del realismo e della necessità, infidi, tentennanti, armistizianti, capitolanti, che si sono affilati i denti per distruggerla. Mohamed Bouazizi, tunisino, fruttivendolo e rivoluzionario senza ideologie un anno fa si è dato fuoco a Sidi Bouazid, città garrotata dalla miseria e dalla paura dei potenti.

Da quel tragico giorno l’aria del mondo arabo trasporta le molecole del suo gesto, leggera come il polline e dura come il piombo; e quei semi sono caduti nei solchi e nei cuori, danno alle cose aria di primavera o di battaglia, producono fiori o proiettili. Senza quel sacrificio, nella piazza principale davanti agli occhi imbambolati dei perditempo dei caffè, oggi il Nord Africa sarebbe quieto alle riverenze del comando assoluto, obbediente a Ben Ali, Gheddafi, Mubarak, sauri giganteschi, superstiti di un feudalesimo colossale in terre preistoriche. Anche il siriano Assad sarebbe uno statista ragionevole e non assediato, come Macbeth, dal conto strabocchevole dei propri delitti.

E invece quel giorno di un anno fa Mohamed fece conoscere al mondo arabo l’evidenza del vero principio rivoluzionario, che una prima ingiustizia è fonte di ingiustizie infinite. Mohamed il tunisino non ha inventato ideologie e non ha coniato gli slogan sobillatori dell’Islam politico, non ha imbracciato mitra e corano, non ha mai schiacciato un tasto per navigare su Internet, non ha fatto proseliti sulla Rete o su Facebook. Dignità: e questa la sua parola. La prima rivoluzione del terzo millennio è stata creata da un gesto antico che sa del sacrificio di Abramo. Solo così poteva dimostrare a plebi inerti sotto decennali dittature che il coraggio è attaccaticcio come la paura. E senza di lui noi, in Europa, dall’altra parte del mare, non avremmo scoperto che ogni uomo che arrivava a Lampedusa non era solo un clandestino, era un romanzo con capitoli solitudini pianti risa speranze, con in tasca una storia che sbalordiva come una rivoluzione vittoriosa.

Lo ricorderanno oggi in Tunisia, Mohamed, nella capitale e nella sua città. Ma con pudica sommessità. Non saranno celebrazioni fastose, rievocazioni da padre della patria. Eppure senza di lui Moncef Marzouki oggi non sarebbe presidente nel Palazzo di Cartagine ma un esule parigino alla ricerca difficile di intervistatori interessati a sentirlo contumeliare il padrone del suo Paese. E gli islamici che hanno vinto le elezioni, le prime libere senza brogli e che hanno in mano tutte le leve del Potere, sarebbero nelle galere o dispersi ai quattro capi del mondo a spazzolar via la patente di fiancheggiatori di Al Qaeda. Perfino a Sidi Bouazid i suoi coetanei, i primi scesi in strada con le pietre e con la rabbia del suo sacrifico hanno votato per un telepopulista che faceva opposizione, pantofolaia, da Londra e che ha promesso di donare denaro a tutti.

No, i giorni che sono venuti dopo quelle settimane di furia e di vittoria, migranti finora da una miseria cupa ad un’altra, non assomigliano a Mohamed. Lo prova il fatto che nessun partito ha osato proclamarsi erede o sacerdote del suo culto. Anzi, hanno perfino cercato di insudiciare e avvilire quel gesto, sproloquiando che non è stata una scelta volontaria ma un incidente e che la sua famiglia ha speculato sulla sua morte procurandosi denaro e vantaggi.
Eppure dal quel giorno di un anno fa i popoli arabi hanno raccolto due tesori, uno di odio verso tutti coloro, in barracano o in doppio petto, vogliono riprendersi quella loro dignità, e uno di fiducia, che una rivoluzione se sarà necessario si può ripetere.

La Stampa 17.12.11