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"L'ultima giravolta del partito senza memoria", di Michele Prospero

Nel dibattito parlamentare sulla manovra è andata in scena una recita a soggetto che per molti mesi ancora accompagnerà la destra. Alla decadenza del confronto pubblico non sembra
esserci più argine. Mentre il Paese si sta giocando la sopravvivenza, a destra si dividono i ruoli in commedia. Da una parte c’è chi cerca di smarcarsi da un governo votato ma poco gradito. E dall’altra chi assume i toni agitatori e annuncia una chiamata alle armi per una battaglia all’ultimo sangue. La Lega è la più triviale manifestazione di quella sfacciata politica che, diceva Machiavelli, ha una doppia anima, una in piazza e una in palazzo. Dopo aver occupato così a lungo il potere, ed essersi anche distinta per la solerzia nell’attacco ai
diritti sindacali (l’imposizione dell’arbitrato nelle controversie di lavoro venne schivato dal Colle che negò la firma), ora il Carroccio scopre una improbabile anima proletaria. È ridicolo passare dalle auto blu, dai fastosi consigli di amministrazione e dalle allegre cene di Arcore ai proclami insurrezionali redatti in nome degli umiliati e offesi. Con la insulsa sceneggiata di
vestirsi in aula con gli abiti operai, le satolle truppe di Bossi cercano di far dimenticare (troppo in fretta!) la loro responsabilità storica per la crisi e la decapitazione del diritto del lavoro. Il famigerato articolo 8 contenuto nella manovra estiva era stato difeso con le unghie anche dalle camicie verdi. Pure nelle occasioni più cupe, la Lega ha fatto da sentinella alle volontà di rottura di ogni coesione sociale sprigionata da Sacconi. Per una mai dissimulata ingordigia di potere, la Lega ha calato le braghe sulla vicenda Milanese e ha scritto in atti parlamentari che Ruby era la nipote di Mubarak. Proprio il partito del ministro degli Interni ha poi protetto i sodali di
maggioranza accusati di collusione con la mafia e la camorra. Sono stati anni fallimentari che hanno devastato l’economia e decurtato i fondi per i servizi locali (alla faccia del federalismo fiscale). Invece della sofferta meditazione sulle malefatte, il Carroccio preferisce dare fuoco alle polveri e coprire le sue colpe epocali sotto il fumo compiacente che tutto oscura. Uno spirito di rivolta agita anche il Cavaliere ritornato parlante pur di ottenere il rapido oblio sulle responsabilità che hanno provocato il disastro. Il suo piano è di una semplicità infantile. Se le cose, come si augura, non daranno segnali di ripresa, il discredito ricadrà soprattutto sulle vecchie forze d’opposizione contagiate dal governo tecnico. E il Cavaliere potrà risorgere dalle ceneri una volta ancora come il nuovo che avanza dopo i salassi amari delle tasse volute dai truci poteri forti. L’antipolitica è l’eterna sua carta. Al populismo contro il tecnogoverno cavalcato con impeto da Ferrara si aggiunge ora il rusticano anticapitalismo di Di Pietro. Per il miraggio di avere qualche pugno di voti in più, il partito neoideologico e veteropersonale dell’ex magistrato manda in aria ogni prospettiva coalizionale. Si apre un ciclo insidioso di insana demagogia. La ossessiva campagna antipolitica che il giovedì va in onda a reti unificate, e ogni giorno conquista i titoli conformistici della grande stampa d’opinione, sono una gradita boccata d’ossigeno per il Cavaliere e per chiunque coltivi il
progetto di una uscita da destra dalla crisi di sistema. Colpire le cariche più prestigiose e minare i partiti rientra nel disegno di chi rispolvera persino il caldo concetto novecentesco (ed
eversivo) di stato di eccezione per dipingere il ruolo del capo dello Stato, reo di aver sospeso la legalità costituzionale e sospinto le istituzioni in una bellica terra di nessuno priva di garanzie legali e senza più custodi! Berlusconi si è detto già pronto a rivendicare il potere supremo di dare ordini dopo il tempo inutile del «disperato Monti». L’antipolitica che ha arruolato tanti interpreti cerca ora di saldare il grave disagio sociale con la auspicata crisi dei partiti più sensibili ai richiami del bene pubblico. Lo scenario di una contrazione della democrazia in tempi di recessione non è da fantapolitica. L’antipolitica si arresta solo con partiti dalle radici sociali solide. La sinistra ha modificato su molti punti la manovra, correggendone palesi distorsioni e clamorose omissioni. La battaglia però continua. Dalla crisi non si esce certo con la mistica del rigore. Servono le grandi idee della sinistra: crescita, dignità del lavoro, lotta alle ineguaglianze, sostegno alla domanda e quindi al reddito, politiche pubbliche, ricostruzione su base europea di un controllo politico del ciclo economico, della moneta e dei flussi finanziari. Anche nell’emergenza, le differenze con la destra restano abissali e solo le idee della sinistra possono battere la crisi.

L’Unità 17.12.11