attualità, politica italiana

"Per i sindaci il vero esame di maturità", di Alberto Zanardi

Cosa cambia nella finanza locale dopo la manovra Monti? I Comuni avranno più risorse su cui contare? Va ricordato che l’intervento del Governo sui bilanci dei Comuni non si esaurisce nell’attivazione dell’Imu ma comprende anche la riforma della Tarsu e i provvedimenti sul fondo perequativo. Questi diversi blocchi della manovra interagiscono tra loro in modo complesso. Innanzitutto, la tassazione immobiliare. Oggi i Comuni tassano gli immobili con l’Ici, che esclude la prima casa e che, dalla nella relazione tecnica del governo, vale per l’insieme dei Comuni 9,2 miliardi. Prima ancora della manovra Monti, era prevista la sostituzione dell’Ici con l’Imu, dal 2014. L’Imu, in quella versione, altro non era che l’Ici con aliquote-base maggiorate per compensare l’assorbimento dell’Irpef sui redditi fondiari nell’Imu. Questa prima versione dell’Imu (che vale 10,8 miliardi) è stata integrata e modificata dalla manovra Monti che sottopone a prelievo la prima casa (al 4 per mille) e gonfia la base imponibile attraverso l’aumento dei moltiplicatori da applicare alle rendite catastali. La nuova Imu dovrebbe dare un gettito di ben 21,4 miliardi, cioè 10,6 miliardi in più della Imu prima versione, e 12,2 miliardi rispetto all’Ici attuale.
Tuttavia, di queste risorse non un euro resterà ai Comuni: infatti lo Stato da un lato chiede ai sindaci di arretragli 9 miliardi (pari alla metà del gettito a esclusione delle prime case), e dall’altro taglia i trasferimenti erariali erogati ai singoli Comuni a titolo di fondo perequativo per la restante differenza di 1,6 miliardi. Analoga operazione di sterilizzazione è prevista per il miliardo in più previsto dalla riforma della Tarsu.
Il risultato sarà dunque che dalla revisione dei tributi comunali prevista dalla manovra nulla cambierà in termini di risorse disponibili.

Dunque, stesse risorse, ma a un costo politico ben più pesante: se oggi i Comuni impongono un’aliquota media del 5,2 per mille, e nulla chiedono per le prime case, domani pretenderanno il 4 per mille sull’abitazione principale e il 7,6 sul resto degli immobili. Insomma, i Comuni sono chiamati a far da esattori per lo Stato sul suo maggior prelievo.
C’è poi un altro blocco della manovra da considerare. In aggiunta agli inasprimenti del Patto decisi in estate, la manovra stringe ancora i cordoni della finanza locale con un’altra sforbiciata dei trasferimenti statali sul fondo perequativo, questa volta senza nessuna compensazione di maggiori gettiti. Si tratta di un taglio complessivo di 1,45 miliardi a partire dal 2012, ripartito tra i singoli Comuni in proporzione alla distribuzione territoriale della nuova Imu. Sotto a questa regola di riparto c’è l’idea che chi avrà con la nuova Imu basi imponibili più consistenti potrà più facilmente, attraverso l’aumento delle aliquote, recuperare le risorse tagliate.
In effetti, a partire dalle aliquote-base i sindaci avranno ampi margini di manovra sulle aliquote Imu (+/- 3 per mille sull’ordinaria; +/- 2 per mille sulla prima casa) e queste variazioni si applicheranno su basi imponibili gonfiate dalla rivalutazione. Ma si tratta una manovrabilità che i sindaci potranno sfruttare a caro prezzo: con livelli di pressione fiscale così alti e con la stangata che l’Imu dà agli immobili già alle aliquote-base, ci vuol coraggio per proporre ai propri cittadini aumenti ulteriori in cambio di eventuali servizi pubblici aggiuntivi.
Da ultimo, i meccanismi di perequazione comunale: da un lato, lo Stato opera un doppio taglio sui trasferimenti al fondo di riequilibrio ma, al contempo, per non indebolirne la portata perequativa, amplia la gamma dei tributi comunali che lo alimentano includendovi anche la compartecipazione Iva. Si tratta di un gran lavorio attorno a un meccanismo intricato che sempre più mostra la corda. Sarebbe tempo di mettere mano a un sistema di trasferimenti perequativi più trasparente, in cui la perequazione non si esaurisse all’interno del circuito dei trasferimenti soppressi dalla riforma del federalismo fiscale ma si applicasse con chiarezza alla riduzione delle disparità di capacità fiscale tra singoli Comuni.

Il Sole 24 Ore 19.12.11