attualità, politica italiana

"In difesa della politica", di Francesco Piccolo

L’ossessione per Berlusconi è stata prontamente sostituita dall’ossessione per la Casta. C’era un improvviso vuoto di rabbia da sfogare, ed è stato semplice e rapido occuparlo. Sia chiaro: ci sono giornalisti meritevoli che da anni cercano con minuziosa razionalità di denunciare le magagne costituite da eccessivi privilegi e anche eccessivi tornaconti; ci sono dati di fatto sulla irrilevante attività legislativa di questo Parlamento. E soprattutto c’è la questione fondamentale di questi anni e di questa legislatura: i deputati non rappresentano direttamente la popolazione perché non sono stati direttamente indicati. In più, si cerca dai politici quel gesto esemplare che autoelimini privilegi e indennità eccessive per comunicare al resto della popolazione la partecipazione diretta ai sacrifici di questi tempi.
Insomma, di ragioni per criticare la classe politica, e i rappresentanti di questa legislatura in particolare, ce ne sono (ma ce ne sono sempre state!). Quello che è preoccupante, adesso, è la facilità con cui i limiti di questa critica siano stati superati, con quella disinvoltura e quella violenza di chi è sicuro di stare dalla parte giusta e non ha timore di esagerare. La critica problematica agli eventi politic, e la rabbia generica “contro quelli che stanno lassù” che è sempre stata indicata come una questione risolta nei discorsi in autobus o mentre si faceva la fila alle Poste queste due categorie così diverse, si sono fuse; è la storia di questi anni: si mescola con facilità una critica mirata e razionale, un’idea di miglioramento dello stato delle cose, con un’avversione irrazionale e distruttiva. Le due modalità si sono mescolate, a tutto vantaggio di quella più violenta. Così, alla fine, in questi ultimi mesi, si è parlato del barbiere o della buvette e dei prezzi che elargiscono, quasi quanto l’ici e le pensioni. Come se le due cose fossero uguali; e come se il Parlamento esistesse soltanto per permettere ad alcuni privilegiati di farsi la barba e di mangiare pesce fresco a pochi euro.
Nessuno sembra più voler ricordare che la nostra Repubblica ha ancora il suo punto d’appoggio per sollevare il mondo, ed è il Parlamento. Lo si può dimezzare, cambiare, si possono diversificare i due rami; si può continuare insistentemente a fare richiesta di eliminazione di indennizzi, privilegi, rimborsi spese poco chiari e pensioni eccessive. Bisogna farlo, certo. Ma credo che un paese che voglia restare solido e ritrovare una strada per la crescita, debba consolidare e rendere più degni e avere ancora rispetto sia della professione politica, sia dei partiti politici, sia della classe dirigente che verrà scelta per andare a legiferare. La politica, quella in cui bisogna credere, va difesa, non attaccata. Non è quello che sta accadendo.
Non sono qui a difendere la classe politica così com’è soprattutto, ripeto, quella specifica di questa legislatura, così poco rappresentativa. Però la questione che preme di più è questa: si può delegittimare così interamente, così intensamente, così irrazionalmente un intero sistema politico, un’intera idea della politica? Già con la fine della Prima Repubblica, il mestiere della politica era stato messo in discussione in maniera apocalittica. Si parlava di gente che doveva venire dalla società civile (ma perché, i politici da dove vengono?), che significava che non dovevano aver fatto una carriera politica ma dovevano “scendere in campo” da un giorno all’altro, abbandonando il proprio mestiere e andando a legiferare in sede parlamentare. Questo pensiero si è consolidato, e infatti la maggior parte dei rimproveri che i cittadini fanno ai politici si concentra soprattutto su coloro che stanno in politica da molti anni, anche i migliori.
Stare in politica, fare politica, crescere all’interno di un partito, organizzare un partito, un gruppo dirigente all’interno di esso, ha sempre più una connotazione negativa, sospettabile alla meno peggio, una sfiducia pregiudiziale.
Eppure, il mestiere della politica, è ancora uno dei mestieri più affascinanti. I partiti politici, il dibattito delle idee al loro interno, e le idee di un partito confrontate con le idee di un altro partito, hanno ancora un aspetto decisivo, anche in tempi in cui nuovi mezzi si impongono: i partiti sono organi semplificatori degli indirizzi della società, sono aggregatori di persone che si assomigliano e vogliono lottare insieme. C’è ancora un lunghissimo elenco da citare, di italiani di sinistra, di centro e di destra che hanno onorato o addirittura illuminato questo mestiere. E ci sono ancora ora, in questo momento, in questo Parlamento, delle persone che onorano la loro scelta di vita. Allo stesso modo, molte volte, sempre troppe, il mestiere della politica è stato interpretato male: di sicuro la gestione del potere a lungo termine mette in moto dei meccanismi compromissori. Credo che sull’esempio di altri paesi si possano trovare degli aggiustamenti per proteggere il potere dalla politica, e anche gli elettori dagli eletti. Ma l’idea che si possa aspettare liberamente fuori dal palazzo di Montecitorio i parlamentari che escono, per insultarli, fischiarli e indicarli come la feccia del paese, è un’idea che non funziona e che non può essere alimentata da un compiacimento consapevole. Può essere tollerata, può essere comprensibile nei momenti tragici, nei momenti in cui la rabbia prende il sopravvento. Ma il problema di questo paese sembra proprio questo: si sta abituando a vivere in un eterno moto di collera e irrazionalità; e non solo: comincia a compiacersene, ad affezionarsi. E non può funzionare. Per due motivi bisogna stare attenti ad abbattere la politica così come la conosciamo: è facile farlo e quando è facile bisogna sempre averne sospetto; e non è sostituibile a meno che non si voglia credere che il Qualunquismo possa tornare ad avere una presenza fisica in Parlamento, come ai tempi di Guglielmo Giannini.
Insomma, l’antipolitica che chiunque la pratichi, nega di praticarla, e dice che è la vera politica; ma ne dubito può avere senso per brevi periodi e soltanto come reazione, come accadde per esempio nel periodo di Tangentopoli. Subito dopo, va ricostruito il rispetto per il mestiere della politica, per la centralità dei partiti. E il compito diventa smettere di insultare, e di nuovo tornare a vigilare su coloro che abbiamo eletto. Perché questo paese, la sua costitutiva Repubblica, di cui stiamo contando le varie fasi la prima, la seconda, e ora la terza ha le sue basi potenti e inaffondabili nel parlamento, nei partiti che cercano di indirizzare le idee. Guai se queste istituzioni fondanti si perdessero guai se venissero indicate soltanto come il cancro di cui liberarsi. È così che molti paesi, racconta la storia, hanno spazzato via la democrazia. E, in modo più modesto ma non poco devastante, è nella rabbia antipolitica che ha trovato terreno fertile qualcuno che è sceso in campo contro la classe politica e che è rimasto lì vent’anni. Facendo credere che il suo non era un mestiere. Oggi, se ci fosse un nuovo Berlusconi, se parlasse come Berlusconi parlò venti anni fa, vincerebbe le elezioni, approfittando della rabbia degli italiani contro la politica. È possibile che siamo ancora fermi lì?

L’Unità 21.12.11