attualità, memoria

"Il meglio di Bocca", di Oreste Pivetta

A inseguire Berlusconi c’è sempre il rischio di rimanere indietro, ma ha ragione Giorgio Bocca quando scrive che «il Cavaliere è davvero un uomo pubblico, interamente esposto al pubblico» e che ormai «non ci sono misteri sulla sua psicologia, sui suoi punti di forza e sulle sue debolezze, e nel caso qualcuno le avesse dimenticate è pronto lui a ricordargliele…». I misteri riguardano i suoi soldi, i suoi affari, che astuzie varie, omertà, corruzioni, leggi ad personam hanno finora e forse per l’eternità coperto. Per il resto è vero: si sa tutto, ormai anche come si «stende» (cito il brillante eufemismo del parlamentare Italo Bocchino).

Bocca ci concede un altro ritratto di Berlusconi «fisicamente e mentalmente il contrario dei dittatori del secolo scorso». Continua: «Paragonarlo ai Mussolini, Hitler, Stalin non reggerebbe neppure nella bassezza dell’avanspettacolo». Per giungere a una definizione del «regime» che Berlusconi e i suoi hanno messo in piedi: «Si tratta di quella che noi chiamiamo la democrazia autoritaria: una dittatura della maggioranza o l’assolutismo elettorale per cui chi ha più voti, chi ha maggior consenso popolare può far tutto ciò che gli comoda, anche violare le leggi della Costituzione». Già vi potete immaginare Bossi che apre la bocca in nome del «popolo». Una barbarie, invece, in nome della «democrazia».

Oltretutto in una repubblica parlamentare. Ma «tra Berlusconi e la democrazia parlamentare nata dalla guerra di liberazione c’è incompatibilità di carattere». E con questo saremmo giunti alla fine del libro di Giorgio Bocca, Fratelli coltelli. 1943-2010. L’Italia che ho conosciuto , pubblicato da Feltrinelli. Chiediamo scusa, se urtati dall’attualità siamo andati all’ultimo capitolo, malgrado il senso di questo che non è un pamphlet sul berlusconismo o sulle malefatte italiane, ma è un romanzo-saggio di storia italiana, ricostruita per quasi settant’anni, dalla caduta del fascismo in avanti. Sarebbe stato meglio leggere dall’inizio, dal 24 luglio 1943, di mattina, quando Mussolini al tavolo di lavoro rilegge le relazioni che presenterà al Gran Consiglio e gli Alleati avanzano in Sicilia.

Sarebbe stato meglio per capire che cosa è accaduto in questo paese, che cosa dopo aver intrapreso e percorso la strada della democrazia lo ha riportato indietro, a riaffacciarsi là da dove, quel 24 luglio, era ripartito. Tra Palazzo Venezia e Palazzo Grazioli sono solo poche decine di metri. Quasi un cerchio. Che non si è chiuso, per fortuna, anche se il paesaggio umano non conforta, nell’era delle «escort di professione». Il libro, come sta scritto anche nel risvolto di copertina, è una antologia: raccoglie le pagine migliori di Bocca, dai giornali e dai libri precedenti, e più o meno brevi testi connettono una storia all’altra.

Mi sembra uno dei più bei libri di Bocca, in ragione un po’ della selezione, un po’ della riscoperta di alcuni articoli, magari dimenticati nel cassetto, in particolare quei reportage in cui scopre o si riscopre il cronista che consuma le suole delle scarpe, quando «il Bocca» percorreva da un capo all’altro la penisola, raccontando un mondo che stava cambiando, allora pareva in meglio. Va a Mondovì, ad esempio, che si prepara ad ospitare una puntata di Campanile Sera , in palio «un milione», quando dal teleschermo ci intrattenevano Mike Bongiorno, Renato Tagliani, Enzo Tortora e nelle piazze dei «campanili» in gara si raccoglievano pubblico e comparse ammaestrate che applaudivano o tacevano a comando e sul palcoscenico si adunavano, vigilati dal sindaco, i «cervelloni», maestri, notai, farmacisti, solidali in nome delle comune fortune di fronte al quiz. Il quadro è esilarante: «Per carità – si ritrae il sindaco – ora non posso. Lei mi capisce ho una riunione plenaria degli esperti»; «Vede – ammonisce il segretario comunale accompagnando il cronista alle scale – cadere è una questione di un attimo, di un istante. Per esempio, come si chiama la famosa poesia di Leopardi? Silvia o A Silvia …».

Conclusione, il giorno dopo, vinto il milione del premio: «Ieri la nostra città è andata immensamente lontano,su tutti i video d’Italia». Si domanda Bocca: ma prender la televisione tanto sul serio non vi sembra esagerato? Siamo nel 1959 (l’articolo apparve sull’«Europeo») nel paese che s’è lasciato alle spalle le macerie della guerra e sta costruendo il nuovo benessere, nella stagione del «miracolo all’italiana», quando conquistano la scena vecchi e nuovi padroni. A Carpi il giornalista incontra i magliai e le loro aziendine che si chiamano Clorinda, Lucy, Giba, Noemi, Effegi, Globus, Marilin, Magic e che sono nate e magari sono rimaste un telaio nella stalla o in cantina.

La spiegazione è lasciata al magliaio Ovidio Gualdi: «Qui l’è un vulcano che esplode, cinquanta campionari nuovi ogni tre mesi e gli stranieri il nostro gusto non ce l’avranno mai, l’è propri acsè, perché o la va o la spacca, capita la prassi?». Bocca intuisce il problema per il futuro: i più intelligenti tra i produttori hanno capito che il passaggio alla fase industriale vera e propria è inevitabile. Con le parole d’oggi, si direbbe che siamo già di fronte a un’urgenza di innovazione, quella che lascia a terra i più deboli. Bocca, che viene da Cuneo, conosce il mondo contadino e a quel mondo ama tornare. Anche in questo caso, tra stalle e cantine, è un andirivieni tra passato e presente arretratezze, resistenze e cambiamenti, che possono diventare tradimenti, quando si gonfiano mucche e maiali perché diano più latte e più carne, pazienza se il latte e la carne siano di mediocre qualità, e il grana non sia più quello di una volta e il carissimo culatello sia scadente e i salami invecchino dentro forni, che sembrano uguali a quelli nei quali si cuociono le carrozzerie delle automobili a Mirafiori.

Molti altri sono i momenti salienti della narrazione: la caduta del fascismo, la Resistenza (con testimonianze memorabili di chi, come l’alpino Bocca, la Resistenza l’ha combattuta davvero), la ricostruzione e poi il boom (vedi lo sferzante ritratto di Carlo Pesenti, il bergamasco re del cemento, in piena speculazione edilizia, o l’acuta rappresentazione del neo-italiano medio, che nasce e ha subito negli occhi il paesaggio industriale, ama i cattivi odori e la cattiva cucina, in un luogo come Milano dove si consumano le memorie, scompaiono gli idiomi, «anche le cose poetiche dell’Italia povera contadina», come avrebbe scrupolosamente annotato Pasolini), poi Sessantotto, il terrorismo, la mafia, il tracollo dei partiti e della politica, il leghismo (al quale toccò l’attenzione e pure un voto di Bocca), infine il Sultano cioè il Cavaliere, in una storia che ripropone individualismi, egoismi, rivalità, per un interesse particolare (cioè familiare, di clan, di mafie), che prevale dopo due «unità nazionali» raggiunte, la prima 150 anni fa, la seconda nella lotta partigiana, lotta di liberazione.

A proposito del mestiere di giornalista, pensando magari a chi vuole imparare, vorrei segnalare il reportage che va sotto un titolo duro, «Il linciaggio», che apparve sull’«Europeo» nel marzo del 1960, dove si racconta di un povero vagabondo, definito «mezzo scemo», ubriaco tra un’osteria e l’altra in un paese della Bassa mantovana, massacrato di botte, colpevole di un complimento a una ragazza. Muore il vagabondo e Bocca ne ricostruisce le ultime ore, attraverso le reticenze dei compaesani, tutti colpevoli di violenza o di indifferenza, e le informazioni dei parroci, componendo davanti ai nostri occhi quell’ambiente rurale di fatiche, stalle, ignoranza, vino e crudeltà, con l’amarezza di chi ha combattuto per un altro mondo, anche per quella gente, e la pietà che dovrebbe appartenere ad ogni essere umano, giornalista sì, ma vicino al povero Renzo, così si chiamava il vagabondo, che prima dell’ultimo pugno ha la forza di gridare: «Non vedete che mi uccidete?».

L’Unità 25.12.11