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"Quando Giorgio e io attaccammo da soli quel fortino fascista. Il ricordo dei compagni: era un comandante coraggioso" di Vera Schiavazzi

Lino Silvestri, novantuno anni compiuti a luglio, non è un chiacchierone, anzi, quasi si schermisce se gli si chiede di raccontare di quei mesi in Val Varaita quando, insieme a Giorgio Bocca, combatteva con Detto Dalmastro nella seconda divisione partigiana di Giustizia e Libertà. Eppure, di tutti, è proprio lui quello che forse lo ricorda meglio: perché erano insieme fin dalla scuola elementare, a Cuneo, dove Silvestri non ha mai smesso di vivere; perché, come il padre di Bocca, è stato per tutta la vita un insegnante e un preside di scuola. E perché, insieme, loro due soli, un bel giorno decisero di assaltare il distaccamento repubblichino di Frassino. Come andò? «Benone. Una volta fatta fuori la guardia, tutto fu facile… Per arrivare, camminammo tutta la notte, ma attaccammo in pieno giorno. Son passati così tanti anni che non mi so spiegare perché facemmo una cosa del genere in due, senza compagni. Ma ricordo che la decidemmo lì per lì, il giorno prima. E ci andò bene». I Silvestri erano due, Lino e il gemello Luigi, e Bocca li ha ricordati in più pagine dei suoi libri, a partire da “Il provinciale”. Ora tocca a Ercole, detto Lino, ricordare lui, nel salotto della sua casa di Cuneo, la moglie e i figli intorno a suggerirgli nomi e date che lui respinge con fermezza («Ce la faccio da me, anche se è tutta la vita che son più vecchio di Bocca di un mese…»).
«Giorgio era capo divisione, io e mio fratello avevamo ognuno un distretto, e sopra tutti c´era Detto Dalmastro, che poi sposò Anna, la sorella di Bocca, e morì giovane, nel 1975 racconta Silvestri Dopo la scuola, lui aveva fatto il liceo e cominciato a fare il giornalista, mentre io studiavo da maestro. Si capiva che sarebbe diventato importante. Bocca alle divisioni di Gl ci arrivò per conto suo, erano quelle che corrispondevano di più alle sue idee. Fu bello ritrovarsi, noi che ci conoscevamo da bambini. E subito si ricominciò a fare scorribande insieme. C´era tanta fame, in montagna, eravamo dei ragazzi con un appetito da lupi e uno dei problemi principali era trovare da mangiare per noi e per gli altri». Un problema che la coppia Bocca-Silvestri risolveva spesso e volentieri scendendo, con un po´ di incoscienza giovanile, fino a Madonna dell´Olmo, alle porte di Cuneo, dove un salumificio pre-industriale continuava a lavorare a dispetto della guerra: «Di lì abbiam preso salami e carne quanto bastava per dar da mangiare a tutti». Sparare, uccidere, restare uccisi: che valore avevano queste cose per un partigiano della Val Varaita? «Non è che potessimo farci scrupoli. Noi sparavamo se ci attaccavano, o quando dovevamo attaccare noi per non finire rinchiusi al fondo della valle. Era la guerra, e in guerra non si può stare troppo a pensare». E dopo? «Dopo, la vita ci ha separati. Io ho fatto il preside e l´ispettore, ho lavorato un po´ in tutta Italia. Lui è diventato il giornalista famoso che tutti conosciamo. Leggevo i suoi articoli, i suoi libri, certo, ma non c´era possibilità di frequentarsi. Ma cosa cambia? Se uno è stato amico in momenti come quelli, è amico per sempre».
E se si insiste, se si cerca per esempio di capire che cosa fece di Giorgio Bocca non solo un partigiano ma un comandante, i suoi vecchi compagni quasi sogghignano: «Non c´è un perché. Era ragazzo, era coraggioso, non si tirava indietro, anzi, si offriva. Ecco il perché», risponde Silvestri. Da Torino, un altro partigiano di allora, Giorgio Diena, aggiunge: «Non c´erano mica le selezioni del personale, in montagna. Giorgio era un capo perché i suoi lo riconoscevano, si fidavano. Nessuno ti diceva: da domani tu fai il capo. Succedeva, e basta». E Diena, che prima della Val Varaita ha combattuto in Val Pellice e in Val Chisone, spiega anche perché poteva capitare a chi era “meno inquadrato” di finire in una formazione autonoma, o tra le fila di Giustizia e Libertà piuttosto che tra i garibaldini: «Non c´erano obblighi politici, tra noi, eravamo più aperti. Aperti, attenzione, non tolleranti. La differenza era tutta lì, noi non avevamo troppo bisogno di commissari politici, gli altri sì. E adesso mi scusi, sono un po´ abbattuto. Anche a novant´anni dispiace quando un amico se ne va».

Repubblica 28.12.11

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“Cari ragazzi, non smettete di vigilare la democrazia va difesa in prima persona”
Ha ancora senso oggi dirsi antifascisti perché gli italiani tendono a essere fascisti senza saperlo

Lei quando era ragazzo è stato fascista. Quando e perché ha iniziato ha maturare una coscienza antifascista?
«La questione è fondamentale. Essere fascista in un regime dittatoriale non significa aver aderito al fascismo, vuol dire essere obbligato a iscriversi al fascio. Il mio fascismo consisteva nell´andare a sciare, del fascismo non sapevo assolutamente nulla. Al corso di Allievi Ufficiali ho incontrato dei colleghi giovani antifascisti e insieme avevamo persino pensato di scappare in Svizzera, ma ciò significava disertare ed essere fucilati. Eravamo stanchi del fascismo, come tutti».
Cosa ha significato per lei la resistenza?
«Per me la Resistenza ha significato l´ingresso nella vita politica. Per la prima volta ho potuto far politica sul serio, sapendo cosa facevo e scegliendo per conto mio la libertà».
Molti partigiani hanno vissuto il dopoguerra come un tradimento della resistenza. Fu cosi anche per lei?
«Semplicemente c´è stato un chiarimento: si è capito che la maggior parte degli italiani non erano pronti a fare gli antifascisti. Erano semmai pronti ad obbedire ad un nuovo padrone».
In questi ultimi anni assistiamo a un revisionismo storico riguardo a ciò che è stata la Resistenza partigiana. Crede sia colpa della classe politica o di una parte del popolo italiano?
«La revisione è un fenomeno tipico della cultura italiana: gli italiani rompono sempre le bambole che hanno fabbricato. Tutte le cose buone che vengono fatte in questo paese vengono criticate e distrutte»
Lei ritiene che oggigiorno abbia ancora senso definirsi antifascisti?
«Io penso di sì perché la tendenza di una buona parte dell´opinione pubblica italiana è di essere fascista senza saperlo».
Quindi che cosa significa oggi essere antifascista? Cioè cosa può fare in concreto un antifascista?
«L´antifascista deve pretendere che i diritti civili siano rispettati, pretendere che la libertà di stampa esista, pretendere che la libertà di parola e di voto esita, insomma difendere tutti quei diritti che devono essere garantiti in una democrazia. Un antifascista deve impegnarsi a difendere la democrazia in prima persona. Siccome questi diritti vengono violati continuamente, e la gente non se ne accorge, come la libertà di stampa, bisogna vigilare sempre».
(Il testo completo di quest´intervista a Giorgio Bocca, a cura di Ilo Steffenoni e Francesco Fontanive è stato pubblicato nel marzo 2010 sulla rivista studentesca di Verona “Il Superstite”)

La Repubblica 28.12.11