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"Il nostro futuro multietnico", di Giovanna Zincone

Bisogna smettere, e pure in fretta, di pensare l’italiano tipo come un individuo dotato di nonni nati in Italia. Questo è un messaggio chiave che trasmette il rapporto dell’Istat sul futuro della popolazione del nostro Paese. Infatti, a vivere in Italia nel prossimo mezzo secolo saranno sempre di più persone e famiglie che hanno origini straniere, più o meno lontane nel tempo. E fin d’ora non sono poche. Già all’inizio del 2011 i residenti stranieri in Italia erano più di 4 milioni e mezzo, cioè il 7,5% del totale. E dal computo sono esclusi gli immigrati e i loro discendenti che hanno ottenuto la cittadinanza. L’Istat prevede, seppure con molte cautele metodologiche, che nel 2065 la percentuale degli stranieri arrivi nell’ipotesi più bassa al 22% e in quella più alta al 24% dell’intera popolazione residente.

Possono sembrare dati impressionanti, ma non è il caso di lasciarsi impressionare. E per una serie di motivi. Come sanno bene i ricercatori dell’Istat, le previsioni sulla popolazione quando si proiettano su tempi molto lunghi possono presentare grosse sorprese. Su un arco di tempo più breve (20 anni), immaginando cioè nel 1987 cosa sarebbe successo nel 2007, l’Istat aveva previsto un impatto quasi irrilevante dell’immigrazione, e lo stesso aveva fatto l’Irp, cercando di prevedere nel 1988 cosa sarebbe successo 20 anni dopo. Insomma, in quegli anni il contributo dell’immigrazione alla popolazione del nostro Paese era stato largamente sottovalutato.

Siamo sicuri di non cadere, oggi, nell’eccesso opposto? Probabilmente stiamo rischiando di sopravvalutare il numero dei nuovi arrivi. Non è, infatti, detto che il mercato del lavoro italiano, in futuro, sia ancora capace di attrarre potenti flussi dall’estero. Già con il decreto flussi del 2010 il Governo italiano ha offerto più permessi di soggiorno rispetto a quelli di fatto utilizzati. E il tasso di disoccupazione degli immigrati tra il 2008 e il 2010 è aumentato tre volte e mezzo di più di quello degli italiani. Così come non è detto che potenti esportatori di popolazione verso l’Italia, come la Romania o la Cina, abbiano in futuro condizioni economiche tanto peggiori delle nostre, e tali da spingere a emigrare in massa nel nostro Paese. Emigrare è costoso anche in termini emotivi e, se la differenza di prospettive economiche tra il posto che si lascia e quello verso cui si va non è abbastanza ampia, non si emigra. Non è detto neppure che gli stranieri che si fermano in Italia continuino a fare più figli degli italiani. Insomma, quando guardiamo a un futuro lontano, ci possiamo sbagliare sui numeri. E comunque se i numeri fossero alti sarebbe un bene: vorrebbe dire che nel nostro Paese c’è un’economia attraente.

Quello di sbagliare sui numeri non sarebbe grave. L’Istat, inoltre, guardando al futuro, ha ritenuto opportuno distinguere tra immigrati che restano stranieri e coloro che hanno ottenuto la cittadinanza. Fa le sue previsioni in base alla legge attuale, ma osserva giustamente che la normativa sulla cittadinanza può cambiare. Ed è probabile che cambi. Un recentissimo sondaggio del Centro Italiano di Studi Elettorali dà un 71% di favorevoli a dare subito la cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia, e conclusioni analoghe vengono da Tti, il sondaggio annuale condotto da Gmf e Compagnia di San Paolo. A maggior ragione potrebbe essere accettata la riforma oggi in cantiere, che la concederebbe ai figli di immigrati che risiedono stabilmente da un certo numero di anni. Quindi, il numero di persone statisticamente straniere potrebbe ridursi parecchio, in seguito a una nuova normativa.

Quest’osservazione apre un’altra questione più importante: basta la cittadinanza a fare il cittadino? L’immigrazione è un fenomeno complicato da interpretare, perché ci interessa non solo la sua accertata capacità di sopperire alle carenze di popolazione e forza lavoro, di aiutarci a tenere i conti pubblici in ordine, ma anche per l’impatto che può avere sulla coesione sociale. Se vogliamo ragionare su quest’aspetto, la distinzione giuridica tra immigrati rimasti stranieri e quelli divenuti cittadini non basta. Si può non essere immigrato ed essere comunque straniero e questo è proprio il caso dei bambini nati in Italia. Ma, se prendiamo in considerazione un altro aspetto, quello dell’identità, della cultura, osserviamo che molti che restano stranieri in base al diritto, sono italiani per identità e per cultura. Un’interessante inchiesta televisiva, che ha fatto incursione in varie scuole piene di bambini in gran parte ancora stranieri, ci ha dato un saggio di quanti di loro parlino un ottimo italiano, magari con un po’ di accento dialettale, di quanti tra loro conoscano la storia del Risorgimento, anche meglio di altri bambini con nonni italiani. Questo vale ovviamente anche per molti immigrati arrivati da adulti e rimasti stranieri, perché non vogliono scegliere o perché preferiscono evitare i lunghi tempi di attesa e le trafile della nostra burocrazia. Se ci sembra opportuno prevenire futuri conflitti tra italiani con nonni italiani e italiani con nonni stranieri, dobbiamo porci due obiettivi. Il primo consiste nel favorire una maggiore integrazione sociale e strutturale. Infatti, non possiamo segregare gli immigrati, specie le seconde generazioni, in percorsi scolastici di minore qualità, in occupazioni scarsamente remunerate e poco considerate socialmente, non possiamo farli vivere in quartieri degradati. Le rivolte delle Banlieue dovrebbero averci insegnato qualcosa. Ma non basta: dobbiamo mirare anche all’integrazione culturale, offrire rispetto, e questo è il secondo obiettivo. Non possiamo accettare che si traccino, come alcune forze politiche stanno facendo, barriere di disprezzo nei confronti degli immigrati in genere e di certe minoranze in particolare. Individui anche benestanti e colti, se si sentono estraniati, possono diventare membri attivi di gruppi eversivi, come dimostrano varie biografie di attentatori. Per tutti questi motivi è bene smettere di pensare all’Italia come un Paese di noi e di loro. Già ora ha poco senso, tra cinquant’anni sarà semplicemente ridicolo. O tragico.

La Stampa 29.12.11