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"Mi diedero del pazzo ma quell´idea ha ridato la speranza alle donne", di Dario Cresto-Dina

La mia ricerca del ´69 sembrava visionaria: rinunciare alla mastectomia andava contro le certezze del Ghota dell´oncologia. In quegli anni vinceva il fatalismo, il male era considerato incurabile E molti pazienti dopo la diagnosi venivano abbandonati a se stessi. Fu l´intuizione che salvò la femminilità. Trent´anni or sono il «New England of Medicine» riconobbe e pubblicò il lavoro di Umberto Veronesi sulla quadrantectomia, confermando per la prima volta l´efficacia di un intervento «non invasivo» nella cura del cancro al seno. Arrivò al traguardo un cammino scientifico cominciato dodici anni prima.
Professor Veronesi, che cosa ricorda di quei giorni?
«Lo sguardo scandalizzato del Gotha mondiale della medicina quando esposi l´idea al congresso di Ginevra. Era il 1969. Le reazioni furono ostili. Ero giovane, ero italiano, venivamo considerati scienziati di serie B, e trasgredivo all´ortodossia del tempo. Tre qualità sufficienti a venire isolato dalla confraternita. In altre parole, mi diedero del pazzo».
Non c´era anche la paura di sbagliare?
«L´ho avuta per otto anni. L´angoscia dell´errore. Non ci dormivo di notte».
In che cosa trasgrediva, come medico?
«Credevo in una speranza. Negli anni Sessanta la lotta ai tumori era in un vicolo cieco. La presunta incurabilità del male trasformava in fatalisti la maggior parte degli oncologi. Pazienti venivano mandati a casa senza terapie, altri subivano interventi demolitivi che li annientavano sul piano psicologico».
Lei ha scritto che quando entrò per la prima volta all´Istituto tumori di Milano le sembrò di aver messo piede in un lazzaretto. Perché?
«Stava vicino a casa mia, ci passavo davanti in bici. Nel ‘51, avevo ventisei anni, in un bar di piazza Piola un impresario teatrale mi domandò se volevo conoscere il professor Piero Bucalossi, allora direttore della chirurgia dell´ospedale. In quell´incontro si compì il mio destino. Nelle stanze dell´Istituto Tumori fui meravigliato dal mio maestro, ma rischiai anche di venire travolto dalla sofferenza e dalla rassegnazione che si respirava a quel tempo. Un´aria da peste manzoniana».
Com´era per le donne?
«Nei confronti delle donne colpite da un cancro al seno scattava il dogma della mastectomia, cioè l´asportazione totale della mammella, dei linfonodi dell´ascella e dei muscoli pettorali a cui si aggiungevano lunghe sedute di radioterapia».
Una devastazione fisica.
«Chi rifiutava l´intervento veniva respinta e condannata a morire. Decisi di provare a scavalcare il protocollo. Da anni studiavo gli esami istologici per trovare la conferma di un´idea: pensavo che per curare un tumore del seno di piccole dimensioni sarebbe stato sufficiente togliere il lobo della ghiandola nella quale si insediava il nodulo. Al microscopio mi ero reso conto che nella fase iniziale le cellule malate si riproducevano in modo meno aggressivo».
Quando s´iniziò la sperimentazione?
«Lo studio clinico cominciò nel 1973 e durò otto anni su 700 donne. La metà di loro venne sottoposta a mastectomia, le altre alla quadrantectomia che prevedeva l´asportazione di una sola parte della mammella. La mia prima paziente, quello che si chiama il Paziente Zero, fu Laura, una ragazza milanese di 26 anni che, lo ricordo ancora, abitava in piazzale Bacone. Mi disse: mi sposo tra poche settimane, ho un bel seno, non voglio perderlo. Laura si è sposata e sta bene ancora oggi».
Fu una rivoluzione per l´oncologia?
«Senza dubbio fu un salto in avanti di due posizioni. Per la prima volta l´oncologia poteva pensare non solo di salvare una vita, anche la sua qualità. Venne sradicato il principio del massimo tollerabile a favore del minimo efficace. La mortalità diminuì, oggi siamo alla quota di sopravvivenza dell´85 per cento, e senza lo spettro dell´amputazione sempre e comunque le donne cominciarono ad avvicinarsi alla diagnosi precoce. Forse l´autentica rivoluzione si è manifestata nel rapporto medico-paziente. L´attenzione all´integrità fisica e alla dimensione psicologica della malattia introdusse l´elemento dell´empatia, cioè la partecipazione consapevole del malato alla propria cura. Un fondamento della medicina moderna».
Professore, lei ha più di 80 anni. Quali sono state le più importanti tappe della medicina di cui è stato testimone?
«Le vaccinazioni contro le grandi malattie virali come il vaiolo, la difterite e la poliomielite, gli antibiotici per debellare le infezioni, la radioterapia per i tumori, i trapianti d´organo, la decodifica del DNA, l´applicazione del calcolo informatico all´imaging diagnostico, le cellule staminali».
Sconfiggeremo il cancro?
«Io penso che un giorno l´uomo vincerà anche questa sfida. La prossima scoperta decisiva potrebbe chiamarsi Mirna. Significa microRNA: frammenti genetici specifici che le cellule tumorali immettono nel sangue alcuni anni prima che il tumore diventi anche solo una presenza di pochi millimetri. Attraverso un semplice esame del sangue ora è già possibile individuare il cancro del polmone molto prima che si manifesti. E presto il test sarà disponibile anche per il tumore del seno».

La Repubblica 04.12.11