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"Non è ancora un Paese per ricercatori", di Dario Braga

Chi è avvezzo alle scienze sperimentali sa che ogni teoria deve essere sottoposta al vaglio della sperimentazione per verificarne esattezza e robustezza. Questo vale anche per la teoria del temporary job universitario che sorregge le scelte della legge 240/2010 (Gelmini). A quasi quattro anni di distanza dall’entrata in vigore, è quindi possibile valutare in modo oggettivo i risultati del modello basato sul reclutamento universitario su tre passaggi a tempo determinato, l’ultimo dei quali in tenure track per poter accedere stabilmente alla carriera universitaria.
Materia complessa, persino da raccontare: dopo il dottorato si inizia con assegni di ricerca per un massimo 4 anni, si prosegue come ricercatore a tempo determinato di tipo A («RtdA») con contratto di 3 anni rinnovabile fino a un massimo di 5 e si continua per altri 3 anni come ricercatore di tipo B («RtdB») con la previsione, in presenza di abilitazione nazionale, del passaggio finale a professore associato.
Per buona sostanza, un modello di selezione progressiva, basato su reiterati concorsi, con “uscite laterali” in corrispondenza di ciascun passaggio. Il percorso dura al massimo 12 anni dal momento della conclusione del dottorato di ricerca. Età nominale a fine percorso: circa 38 anni. Ragionevole per diventare professori associati. In paesi normali, non in Italia.
Un primo serio scollamento prassi-teoria riguarda gli assegnisti ed è stato determinato dalla necessità – non prevista dalla legge 240, ma inevitabile nel mondo reale – di azzerare l'”orologio del precariato” al momento dell’entrata in vigore della legge per non “buttare fuori” di colpo assegnisti pre-Gelmini. Quindi oggi tanti assegnisti di ricerca a fine quadriennio non hanno 30 anni, ma ne hanno spesso 35 o più, e spesso sono ricercatori con solida reputazione internazionale e talvolta hanno già conseguito l’abilitazione scientifica nazionale.
Per i contratti triennale di ricercatore a tempo determinato RtdA, altri imprevisti. Forse per limitarne il numero e spingere a una programmazione degli accessi, agli RtdA assunti sui bilanci degli atenei è stata attribuita una quota di “punti organico” Miur usati per la programmazione creando immediatamente una differenza, foriera di contenziosi, tra RtdA finanziati dagli atenei e tutti gli altri assunti con altri finanziamenti competitivi anche internazionali o da contratti di ricerca con imprese ecc.. In alcuni casi, poi, Rtd sono anche stati utilizzati come docenti di riferimento per attivare corsi di studio, creando un’ulteriore discriminazione potenziale.
Anche per gli RtdA della prima ora si sta presentando il problema della proroga oppure dell’uscita inevitabile dal sistema universitario, con età spesso vicina ai 40; solo per pochi sarà possibile proseguire come RtdB entrando in tenure track.
La teoria del temporary job alla base della legge 240 ha fallito per due motivi:
– perché non ha considerato migliaia di assegnisti già operanti nei dipartimenti al momento dell’entrata in vigore;
– perché non ha previsto misure parallele per incentivare l’assunzione di ricercatori da parte delle imprese e del sistema pubblico non accademico.
È sbagliato impostare il reclutamento su un paradigma di “filtri successivi” in assenza di un mercato del lavoro alternativo che dia valore alle competenze che si rendono disponibili per chi non prosegue. Per questo servono manovre concrete che incentivino la mobilità tra atenei e tra atenei e imprese. La liberalizzazione del JobsAct potrebbe servire anche al sistema pubblico.
Per la legge 240, qualche utile correzione può essere apportata anche subito. Serve semplificazione. Alla prova dei fatti due figure diverse di Rtd (A e B) sono davvero troppe. Teniamo il Rtd come canale di accesso (tenure track), semmai portandolo a 5 anni, e rinunciamo al Rtda (che, de minimis, andrebbe comunque svincolato dai punti organico). Allarghiamo per converso la possibilità di utilizzare gli assegni di ricerca in modo più efficiente e flessibile rimuovendo il limite dei quattro anni ma, introducendo, al contempo, un gradino salariale che garantisca dopo il quarto anno incrementi salariali consistenti e compensativi.
Se poi proprio volessimo “cambiare verso” dovremmo superare la logica di gestire il personale mediante “punti organico” lasciando agli atenei la libertà di lavorare sui loro bilanci in funzione delle risorse reali e non sulla base di programmazioni virtuali.

da Il sole 24 Ore

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