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Ciampi: “Salvati dall’euro”, di Paolo Passarini

«Sì, certo, ricordo benissimo». Nella memoria di Carlo Azeglio Ciampi scattano i fotogrammi di una certa mattina di dieci anni fa. «Stavo andando all’aeroporto, ma decisi di fare una sosta alla Zecca, perchè sapevo che coniavano i primi euro. Ricordo che presi tra le dita la prima di quelle monete, con l’uomo di Leonardo sul “verso”, come avevamo voluto. L’immagine più bella che si potesse mettere sull’euro».

Qualcuno scrisse che le spuntò una lacrima…
«Ero certamente commosso. Avevo vissuto ogni fase della storia dell’euro, prima come governatore della Banca d’Italia, poi come ministro del Tesoro e, infine, come presidente del Consiglio. Si può dire che tutta la mia vita pubblica si è svolta nel solco dell’euro».

E, naturalmente, ricorda anche i momenti difficili.
«Intanto ci furono tutte le difficoltà connesse alla decisione di dare vita all’euro. Ma poi ci furono quelle per realizzare le condizioni necessarie a far entrare la lira nonostante avessimo molti dati contro. Il più importante era il rapporto tra deficit pubblico e prodotto interno lordo, che nel ’96 aveva chiuso al 7,5%. La soglia massima accettata era il 3%. L’obiettivo per il ’97 era stato fissato al 4,5%, ma nel corso dell’anno decidemmo di puntare al 3% entro l’autunno. In realtà, poi, scendemmo addirittura al 2,7%, ma, a quel punto, l’altra grande difficoltà fu convincere l’Europa che quei risultati erano sostanziali e non frutto di artifici contabili, come scrivevano anche alcuni giornali italiani e come sembrava credere il ministro delle Finanze tedesco Theo Weigel, diventato poi un mio grandissimo amico. Fu una lotta veramente dura. Conservo incorniciato il comunicato-stampa che dette notizia dell’accettazione dell’Italia. Lo tenevo nel mio studio al Quirinale e ce l’ho oggi al Senato».

Ci furono critiche rispetto al livello di cambio accettato per la lira.
«Quello era avvenuto prima, quando bisognò trattare il rientro nell’accordo di cambio dal quale eravamo usciti nel ’92. Chiesi il rientro e ci fu una riunione molto dura dell’Ecofin a Bruxelles. Puntavo a mille rispetto al marco, ma strappammo quota 990, che un articolo del Financial Times dipinse come un successo ottenuto dopo una fiera battaglia. Del resto, le banche centrali si erano già accordate per 950».

Poi l’euro ebbe corso e in Italia i prezzi esplosero. Si poteva fare meglio?
«Si poteva fare di più durante la fase di change-over. Avremmo dovuto insistere perchè venisse creata la banconota da un euro. Inoltre, a partire dal 1 gennaio ’99, non vi furono abbastanza controlli. Forse sarebbe stato anche opportuno mantenere più a lungo le etichette con il doppio prezzo. Ma questi sono aspetti minori rispetto al risultato di avere creato l’euro».

Infatti lei continua a ritenere che l’adozione dell’euro sia stata un buon affare per l’Italia.
«Certamente. Basta andare con la memoria alle varie crisi vissute negli anni ’90, pensare agli sconvolgimenti portati sui mercati dalla globalizzazione o riflettere sull’attuale crisi finanziaria internazionale per immaginare quante svalutazioni la lira avrebbe dovuto subire nel frattempo. L’Italia, poi, non ha ancora capito il vantaggio enorme che ne ha ricavato per quanto riguarda la diminuzione degli oneri sugli interessi e di conseguenza del rapporto tra debito e Pil».

Quindi, secondo lei, l’euro è stato un successo?
«Un successo enorme. Basta guardare al rapporto con il dollaro e, adesso, anche con la sterlina, e constatare come l’euro si stia affermando sia sui mercati internazionali sia come moneta di riserva mondiale. Non a caso aumentano le domande di adesione».

Ma non c’è una politica economica europea…
«Una grave mancanza. L’ho già definita una zoppìa. In ogni paese la politica economica è frutto di una collaborazione dialettica tra la banca centrale e il governo. Per l’euro questa dialettica non c’è ancora in modo pieno. L’eurogruppo non coordina ancora la politica economica europea quanto sarebbe necessario. Di conseguenza, anche la risposta a questa crisi non mi è sembrata abbastanza europeista».

Quindi la mancata integrazione è una minaccia per l’euro?
«Bisogna andare avanti. Bisogna che un’avanguardia aperta e non esclusiva apra la strada».

Quale avanguardia?
«L’avanguardia è l’eurogruppo. Vede, si confrontano due visioni, quella di un’Europa confederale quella di un’Europa federale. Adesso l’Unione è un mix delle due cose e così sarà forse sempre, ma adesso occorre che la parte federale aumenti un po’ il proprio peso».

La Stampa, 30 Dicembre 2009