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"Donne, più della metà senza reddito da lavoro. Ruoli chiave: un abisso il gap con gli uomin", di Michela Scacchi

Disoccupazione, precarietà, uguaglianza salariale e conciliazione: i dati Istat fotografano una situazione femminile che in Italia è ancora drammatica e indietro rispetto ad altri Paesi europei. A sud le percentuali precipitano: in Puglia hanno un impiego appena 26 su 100. Tetti di cristallo: 7 dirigenti su 10 sono maschi
In Italia è donna soltanto il 6,5% degli ambasciatori, il 31,3% dei prefetti, il 14,6% dei primari, il 20,3% dei professori ordinari e – nei ministeri – il 33,8% dei dirigenti di prima fascia. A prima vista, l’unica eccezione parrebbero farla i dirigenti scolastici visto che il 58,6% è femmina. Nel ‘pianeta scuola’, però, le donne rappresentano complessivamente il 79% del totale degli incarichi e, quanto a piramidi e gerarchie nei ruoli, risultano ampiamente spalmate dall’alto in basso. Di contro, i dirigenti scolastici uomini sono, sì, il 41,4% ma siccome vanno calcolati su un totale complessivo che è soltanto del 21%, ne consegue che, in rapporto alle donne, quei ‘pochi’ uomini che lavorano nella scuola stanno quasi tutti in alto.

Sempre in Italia, più di 5 donne su 10 sono senza reddito da lavoro, e, per quelle che il reddito lo hanno, la retribuzione media pro capite (calcolata tra impiegate e operaie) si ferma sotto i 25mila euro annui, mentre quella di un uomo sfonda il tetto dei 31mila. Un divario che incide non solo sul quotidiano ma che si ripercuote anche – con lo sguardo proiettato verso il domani – sull’ammontare della pensione.

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Accesso al mercato del lavoro, uguaglianza salariale, conciliazione famiglia-occupazione, stop ai ‘tetti di cristallo’ e credito agevolato. Utopie per le donne? In Italia – indietro rispetto ad altri Paesi europei – la possibilità di agguantare una reale parità di genere è frenata da problemi di natura strutturale. Eppure, le donne ormai raggiungono gli uomini, e spesso li superano, sia nella formazione scolastica sia nella preparazione universitaria. La barriera che si erge all’ingresso del mercato del lavoro, dunque, costituisce una discriminazione che oggi, a detta di tutti, deve essere superata. Allo stesso tempo va contrastata la diversità, anche salariale: già, perché la commissione Ue ha appena richiamato gli Stati membri ad adottare misure utili a diminuire il persistente divario retributivo fra uomo e donna e, in tal senso, a garantire trasparenza.

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Di sicuro c’è che la crisi ha colpito duramente le donne, soprattutto nel Mezzogiorno, dove giovani, mogli e mamme (video) accettano lavori anche dequalificanti pur di risolvere i problemi economici della famiglia, soprattutto se l’uomo ha appena perso il proprio impiego. Inoltre, il part-time involontario, cioè quello stabilito dalle aziende e non certo per motivi di conciliazione, è una condizione sempre più diffusa tra le lavoratrici. Di contro, migliorare la conciliazione fra i tempi di lavoro e quelli di cura rappresenta uno dei principali obiettivi per fare esprimere pienamente il potenziale femminile nel mondo del lavoro e migliorare la produttività delle aziende pubbliche e private.

Freni, vincoli e discriminazioni che vanno eliminati, perché – e soltanto qualche settimana fa a ripeterlo è stato il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti aRepubblicaTv – le donne “devono avere tutte le opportunità per assumere ruoli di responsabilità nella società italiana e nelle imprese”.

Vero è, tuttavia, che i numeri parlano chiaro. Ancora prima di poter affrontare il nodo delle differenze retributive di genere, il problema è rappresentato dalle percentuali legate all’occupazione. Secondo gli ultimi dati Istat, a febbraio di quest’anno risultava occupato soltanto il 46,6% delle donne (46,7% a dicembre 2013), contro un 64% degli uomini, per un totale medio pari al 55,2 per cento. Un gap che dal 2004 a oggi si è via via ristretto (dieci anni fa il rapporto era 70% uomini contro 45% donne) soprattutto perché sono stati i maschi a perdere sostanzialmente l’impiego. Sull’altro versante, più che aumentare l’ingresso delle donne nei luoghi di lavoro, si è allungata la permanenza di quelle che un’occupazione l’avevano già in virtù dell’estensione dell’età pensionabile.

Un tasso di occupazione, quello femminile, che è comunque il risultato di una situazione geograficamente variegata. Le cifre del 2013 regalano un’immagine del Paese che fa tremare le vene ai polsi: se si guarda alle regioni del nord, risulta occupato il 56,5% delle donne. Al centro, lavora il 53,2% contro il 68% degli uomini. Al sud il divario di genere si trasforma in un abisso: ha un impiego solo il 30% delle donne a fronte di un 53,4% di maschi impiegati.

D’altronde, se si analizza il tasso di disoccupazione aggiornato a fine 2013, tali differenze emergono in maniera prepotente. Nella top ten delle regioni che fanno registrare le percentuali più drammatiche, ci sono Puglia (è disoccupato il 26,5% delle donne contro il 18,8% degli uomini), Campania (il 23,7% contro il 19,7%), Calabria (il 24,3% contro il 13,8%), Sicilia (il 23,7% contro il 16,5%), Sardegna (il 18,1% contro il 13,6%), Molise (il 18% contro un pari 18%), Basilicata (dove la situazione è ribaltata pur se di poco: il 15,9% contro il 16,9%), Marche (il 14,5% contro il 10,6%), Abruzzo (il 13,4% contro il 10,6 per cento), e Umbria (il 13,06% contro l’8,8%).

Interessante, inoltre, il raffronto per tipologia di impiego. Nel 2013 i dipendenti a tempo pieno sono per il 62,8% uomini e per il 31,11% donne. La disparità si accentua ulteriormente se si guardano gli autonomi a tempo pieno: il 74,9% è maschio, il 25,08% è femmina. La situazione si ribalta, però, se si analizza il dato sul part-time dei dipendenti: il 19,2% è rappresentato dagli uomini contro un 80,7% costituito dalle donne. Sempre il part-time, ma sul versante autonomi, regala una foto capace di riavvicinare gli estremi: il 42,7% è maschio, il 57,2% è femmina. Anche sugli atipici le percentuali marciano quasi assieme: uomini il 50,6%, donne il 49,3 per cento.

I numeri sulla precarietà restituiscono un’immagine niente affatto serena tanto per gli uni quanto per le altre: hanno contratti a tempo determinato il 51,4% degli uomini e il 48,5% delle donne. E sono collaboratori il 46% dei primi e il 53,9% delle seconde.

Ma è sui profili professionali che permangono i dislivelli più ampi, nonostante il regolamento sulle quote di genere nei cda delle società pubbliche abbia contribuito, già da due anni, ad accorciare lo scarto. E se, per la prima volta nella storia dell’Italia, i ministri che siedono al governo sono per metà uomini e per metà donne, in parlamento le donne sono 3 su 10.

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Fuori dalla politica, due esempi su tutti: i dirigenti e il lavoro a domicilio. Nel primo caso, gli uomini rappresentano il 70,6% contro il 29,3% delle donne. Nel secondo caso il rapporto è invertito visto che le donne sono l’86,7% e gli uomini appena il 13,2 per cento. E ancora: per quel che riguarda l’imprenditoria, la percentuale ‘in rosa’ si ferma al 22,3% contro un 77,6% prettamente maschile.

A guardarlo ancora più nel dettaglio, il pianeta donna che lavora è così ‘spalmato’: è impiegato il 57,5% (il 42,4% sono uomini), è quadro il 41,6% (il 58,3% sono uomini), è operaio il 35,5% (il 64,4% sono uomini) ed è apprendista il 44,2% (il 55,7% sono uomini). Non basta: è libero professionista il 31,8% (il 68,1% sono uomini), è libero professionista senza dipendenti il 32,9% (il 67,01% sono uomini), ed è libero professionista con dipendenti – qui la cifra si abbassa ulteriormente – il 26,08% (il 73,9% sono uomini). A mettersi in proprio, inoltre, è appena il 25% delle donne, contro un 74,8% di uomini, mentre coadiuvante familiare è il 58,7% delle donne a fronte di un 41% di uomini.

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Sabbadini: “Donne lavoratrici e pilastro del welfare, ma pagano un caro prezzo”di MICHELA SCACCHIOLI

E’ capo del dipartimento Statistiche sociali e ambientali dell’Istat e ora anche del dipartimento per i Censimenti e gli archivi amministrativi e statistici: unica donna ai vertici dell’Istituto. Linda Laura Sabbadini, classe 1956, dice di adorare il suo lavoro, e nel 2006 è stata scelta dall’allora capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, per essere insignita – era l’8 marzo – dell’onorificenza di commendatore della Repubblica in virtù del ruolo particolarmente innovativo svolto nel campo delle statistiche sociali e di genere. Fa parte di gruppi di alto livello e di centri di eccellenza dell’Onu e della Commissione europea. Nonostante tutti i suoi incarichi, la Sabbadini non ha mai smesso di occuparsi anche di condizioni e qualità della vita delle donne.

Sabbadini, perché le donne incontrano – ancora oggi – così tanti ostacoli all’inserimento nel mondo del lavoro?
“I fattori sono molteplici. Complessivamente, dal 2008 l’occupazione è calata di quasi un milione di unità. E il solo 2013 è stato peggio del 2009. Tuttavia, le donne hanno tenuto più degli uomini, anche se nel 2013 hanno perso di nuovo occupazione. Ma ciò è successo perché le donne sono molto meno inserite in settori quali industria e costruzioni, il cuore della crisi, a predominanza maschile”.

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Sono state registrate talune dinamiche positive?
“Nei servizi alle famiglie sì. Le assistenti ad anziani, soprattutto immigrate, hanno tenuto bene. E’ l’unico settore, quello delle famiglie, che ha mantenuto un segno positivo durante la crisi. E poi c’è stato l’innalzamento del tasso di occupazione per le ultracinquantenni, che ha aumentato la permanenza sul mercato del lavoro delle donne di queste età.. Non si tratta, insomma, di nuove lavoratrici, ma di donne che già lavoravano e che hanno dovuto prolungare la propria permanenza sul luogo di lavoro”.

Gap geografici: differenze tra nord e sud del Paese?
“Al sud la dinamica occupazionale è peggiore che al nord. E’ sempre stato così, però ora è ancora peggio. Ma al sud si sono verificati alcuni fenomeni interessanti che riguardano le donne”.

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Vale a dire?
“Nel Mezzogiorno, a fronte di uomini capifamiglia che hanno perso il lavoro e che si sono ritrovati costretti a casa, ci sono state parecchie donne che si sono messe alla ricerca di un lavoro al posto del marito o del compagno per far fronte alle gravi criticità familiari. Sono infatti aumentate le donne capofamiglia occupate che si sono accontentate di qualsiasi tipo di lavoro pur di garantire un reddito per la famiglia. Aumento delle occupate immigrate, maggiore permanenza sul lavoro delle ultracinquantenni e riattivazione nella ricerca del lavoro da parte delle donne del sud spiegano quindi la maggiore tenuta dell’occupazione femminile . Anche se le donne hanno pagato un prezzo a tutto ciò: il peggioramento della qualità del lavoro”.

In generale, che ci siano molte donne che svolgono mansioni al di sotto del livello di istruzione raggiunto è un dato di fatto.
“Sì, quello della sovra-istruzione è un altro fenomeno che purtroppo è anche aumentato. Laureate, cioè, che risultano occupate ma che svolgono impieghi per cui la laurea non è affatto necessaria. Inoltre, sono diminuite le professioni tecniche e cresciute quelle non qualificate. E poi è letteralmente esploso anche il part-time involontario”.

Part-time coatto?
“Un lavoro a metà tempo che la donna però non vorrebbe fare né ha mai richiesto al proprio titolare. Un part-time di necessità per le aziende, e scelto dalle imprese. In Italia si tratta di una quota doppia rispetto agli altri Paesi europei”.

Ma c’è un segmento anagrafico che sta peggio?
“Sì, ed è quello delle giovani, fino a 34 anni di età. Per loro il calo dell’occupazione è continuo dall’inizio della crisi. In questo senso sono colpite come i loro coetanei maschi, e in alcuni casi di più.

Quando si parla di occupazione, per le donne va tenuto conto anche del cosiddetto lavoro di cura.
“Sì, e in questo contesto continua a permanere una situazione che non è più sostenibile. Nell’arco della giornata la percentuale di ore di lavoro di cura assorbita dalle donne sul totale di quella prodotta nella coppia è superiore al 70 per cento. E’ un indice che noi monitoriamo ogni 5-6 anni perché si muove con estrema lentezza. Ebbene, i risultati ci dicono che, pian piano, la situazione accenna a migliorare, ma lo fa con tempi molto rallentati”.

E dunque cosa accade?
“Che nell’arco di venti anni le donne hanno cominciato a tagliare il numero di ore dedicato al lavoro familiare perché non ce la facevano più. Il miglioramento nell’asimmetria dei ruoli è più dovuto all’azione di taglio delle donne che all’incremento di collaborazione degli uomini. E ciò non va sottovalutato visto che la spesa sociale pubblica sta subendo tagli non indifferenti. Se le donne tagliano sulla cura e così anche il pubblico, che succederà di tutti i segmenti di popolazione che ricevevano la cura e non la riceveranno più? Di quanto aumenteranno la marginalità sociale e la sofferenza? Basti pensare alle difficoltà in cui si trovano le nonne italiane: lavorano più a lungo, hanno spesso un figlio grande a casa che non trova lavoro, e si ritrovano a dover aiutare contemporaneamente nipoti e genitori anziani spesso non autosufficienti. Sono una grande risorsa del Paese, ma rischiano di diventare anche un anello debole della catena di solidarietà. Saranno costrette sempre di più a dover tagliare le ore di cura”.

Lei intende dire che se tutto deve continuare a stare sulle spalle delle donne, queste non ce la possono fare?
“No, non ce la possono fare. E bisogna prendere coscienza di questo da un punto di vista delle politiche. Il nostro sistema di welfare va rifondato. Non è più pensabile che le donne possano essere il pilastro dell’assistenza nel momento in cui vogliono realizzarsi su tutti i fronti e inserirsi nel mercato del lavoro. E’ un cambiamento epocale Non possono avere il tempo che avevano le generazioni delle loro madri o nonne. Bisogna ridare centralità alla cura nelle politiche pubbliche”.

Arrivare a redistribuire le ore di cura tra i generi è un’utopia?
“Qualcosa sta cambiando, ma molto lentamente. In Italia il percorso che può portare verso una condivisione più simmetrica dei ruoli è, ancora oggi, pieno di ostacoli. Agiscono anche gli stereotipi di genere. I cittadini pensano che, se lavorano entrambi, uomini e donne devono anche dividere equamente il lavoro di cura. Ma a domanda più approfondita ci rispondono che la suddivisione dei compiti nella coppia è equa, quando sappiamo che non è affatto così. In realtà è come se avessero introiettato il modello de facto”.

Il modello per cui gli uomini non sono adatti a svolgere lavori domestici?
“Lo ripetono in molti, e in molte. Pensate che solo la metà delle donne si contrappone al fatto che, in periodo di crisi, gli uomini devono avere la precedenza nel lavoro. Il 25%, poi, non prende posizione. Quel che emerge, pertanto, è che il problema risiede nella mentalità anche di una parte delle donne. Nella percezione delle persone, gli uomini devono lavorare e un po’ possono occuparsi della famiglia, ma solo un po’. Viceversa, le donne devono occuparsi della famiglia e un po’ possono lavorare. E’ il cosiddetto modellobreadwinner modernizzato, cioè il vecchio modello tradizionale di divisione rigida dei ruoli un po’ modernizzato: gli uomini tutt’al più aiutano, cosa ben diversa dal condividere. E’ necessario liberarsi di questo stereotipo, anche perché i numeri legati all’asimmetria di genere ci dicono chiaramente che stiamo indietro rispetto ai Paesi avanzati, e ciò porta a un forte spreco di capitale umano femminile”.

Donne manager e donne ai vertici della politica: il nuovo governo Renzi si caratterizza per un 50 e 50 di rappresentatività di genere, anche se il grosso delle key position resta in mano agli uomini. Alla guida di talune importanti società a partecipazione pubblica, inoltre, sono state piazzate donne, anche se gli Ad con deleghe di sostanza sono tutti uomini. Passi avanti significativi o si tratta di operazioni di maquillage?
“Passi in avanti assolutamente significativi. Questi atti sono fondamentali. Mai successi. Deve diventare normale che le donne occupino queste posizioni. E’ un aspetto simbolico fondamentale. Più diventa la normalità, più sarà di spinta per le donne contro gli stereotipi che le vogliono relegare fuori dal potere. Da anni siamo abituati all’assenza delle donne, e la normalità è sempre stata rappresentata da un monopolio di tipo maschile. Romperlo è un fatto fondamentale per il Paese non solo per le donne. Per questo penso che bisogna continuare così e soprattutto accelerare questo processo. Sono scossoni fondamentali. Le donne così avranno la possibilità di dimostrare che valgono, contano, incidono anche facendo massa critica con le altre. E sarà il Paese ad avvantaggiarsene, è un elemento di innovazione sociale fondamentale. Una opportunità da cogliere al volo, da non perdere”.

Non crede che la necessità di introdurre quote di genere – se ne è discusso tanto anche nell’ambito della riforma elettorale – per affermare la presenza femminile altro non sia che uno svilimento della donna medesima?
“Niente affatto. Le quote di genere possono servire a innescare un circolo virtuoso, e a rendere normale, e non più una eccezione, ciò che non rientra nelle nostre abitudini. La visibilità è un fattore cruciale. Il cambio di rappresentanza nel governo – come anche nel parlamento e nei cda delle imprese in virtù di un meccanismo normativo – può essere utilissimo a dare la spinta e a rompere un monopolio che si è autoriprodotto per cooptazione e non in virtù del merito per anni. Ne guadagnerà tutto il Paese. E poi, mica è detto che dobbiamo mantenere per l’eternità queste misure. Si possono introdurre in una fase transitoria per ripristinare l’equilibrio. Poi non ce ne sarà più bisogno. Credo fortemente nella capacità creativa e innovativa delle donne, la fatica è tanta, ma ce la faremo”.

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