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“Lavoro in Italia,molta flexi e poca security”, di Carlo Clericetti

ROMA – La presentazione del Rapporto sullo Stato sociale è quasi l’unico appuntamento, ormai istituzionale, dove ogni anno invece di parlare di tagli e riduzione delle prestazioni pubbliche si cerca di fare il punto sulla situazione del welfare in Italia, nei suoi diversi aspetti. Curato da Roberto Pizzuti, economista della Sapienza di Roma, è sostenuto dal Dipartimento di economia pubblica della stessa università e dal Criss (Centro di ricerca interuniversitario sullo Stato sociale).

Il sottotitolo scelto scelto quest’anno è “Il tendenziale slittamento dei rischi sociali dalla collettività all’individuo”. In parole più semplici, ciò che si vuol mettere in evidenza è che negli ultimi anni, in tutti i paesi economicamente avanzati, tra le classi dirigenti e la maggior parte degli economisti sembra prevalere la teoria che una serie di compiti che lo Stato si era progressivamente assunto nel corso del secolo passato, e che hanno costruito i sistemi di sicurezza sociale quali noi li conosciamo, debbano invece essere affidati ai privati, o come gestione o addirittura come responsabilità individuale. L’esempio più evidente di questo processo è quello che sta accedendo con la previdenza, in cui la parte di copertura pubblica tende ad essere sempre più ridotta a vantaggio dello sviluppo dei Fondi pensione e delle assicurazioni private. Secondo gli estensori del Rapporto i vantaggi che tutto questo porta alla collettività sono per lo meno dubbi, mentre alcuni svantaggi appaiono comprovati.

Cerchiamo comunque di riassumere alcuni dei temi essenziali trattati nel Rapporto (edito dalla Utet Università) che è una vera miniera di informazioni, statistiche e raffronti internazionali su questi problemi.

Lavoro, senza rete i più precari – “In Italia la spesa degli ammortizzatori sociali rapportata al Pil è pari a circa un terzo della media europea e, per di più, è molto frammentata in trattamenti scoordinati che sono prevalentemente rivolti agli occupati della grande industria, lasciando più scoperte proprio le categorie di lavoratori più precarie”.

Questo nonostante che dal 2000 la spesa sia costantemente aumentata: oggi è pari a 10 miliardi – lo 0,7% del Pil – ed è dedicata per il 30% all’indennità ordinaria di disoccupazione; la seconda voce è l’indennità di mobilità (1,6 miliardi) e la terza la Cassa integrazione straordinaria (0,9 miliardi). Come detto, i lavoratori più precari restano del tutto scoperti, e per di più non hanno grandi probabilità di conquistare il posto fisso. Da un’analisi sulle iscrizioni all’Inps su un campione di collaboratori con mansioni generiche, è risultato che dopo un anno il 44% manteneva ancora lo stesso status e solo il 14% era diventato lavoratore dipendente privato; dopo cinque anni le due quote sono diventate rispettivamente 13 e 33%, ma solo il 28% di questi ultimi aveva un contratto a tempo indeterminato. Una buona parte del campione, invece (il 38% dopo un anno e il 51 dopo cinque anni) non risultava più iscritta all’Inps, e dunque era probabilmente uscita dal mondo del lavoro, almeno da quello ufficiale. La probabilità di rimanere “flessibili” è superiore per le donne (46%), nel Sud (48) e per chi ha più di 30 anni (48).

I poveri: pochi in Lombardia, record in Sicilia – Secondo le definizioni Istat, nel 2006 la soglia di povertà era a 970 euro per una famiglia di due persone: al di sotto c’è l’11,1% delle famiglie italiane, ma con enormi differenze sul territorio. Tutto il Centro-Nord è sotto il 10%, la Lombardia addirittura al 5; tutto il Sud, tranne Abruzzo e Sardegna, è intorno al 20%, e la Sicilia addirittura al 30. Si assiste inoltre al paradosso che le spese per assistenza sociale – affidate essenzialmente ai Comuni dalla riforma del Titolo V della Costituzione – sono inversamente proporzionali ai bisogni. Se la media nazionale è 92 euro pro capite, nel Nord-Est è 135, nel Nord-Ovest 112, 104 al Centro, 73 nelle isole e 38 nel Sud.

Inoltre, a differenza che in altri paesi, da noi i figli di poveri hanno più probabilità di restare poveri: “Facendo riferimento alla mobilità sociale espressa in termini di reddito, i paesi scandinavi e il Canada sono i più “fluidi”, mentre Italia, Stati Uniti e Regno Unito sono quelli in cui le diseguaglianze intergenerazionali sono maggiormente persistenti”. Diseguaglianze che per buona parte del secolo scorso si sono andate riducendo, ma che dagli anni ’70 hanno ricominciato a crescere impetuosamente, specie nei paesi anglosassoni. Nel Regno Unito i ricchissimi, l’1% della popolazione, deteneva nel 1918 una quota di reddito del paese pari al 20%, che era scesa al 6% all’inizio degli anni ’70; ma da allora ha ripreso a salire – come negli Stati Uniti – riportando il valore al livello prevalente tra le due guerre. Fenomeni analoghi, in diverse misure, sono accaduti anche negli altri paesi.

Dove però esistono – almeno nell’Ue a 15 – politiche che garantiscono un “reddito di base” o un reddito minimo: solo Italia e Grecia ne sono prive. Il sistema più generoso è quello della Danimarca, che qui da noi è spesso additata come esempio per la grande flessibilità del lavoro: il reddito minimo per una persona sola supera i 1.000 euro mensili, ma per una coppia con due figli arriva a 3333 euro. A queste condizioni, certo, è un po’ meno drammatico poter essere licenziati.

Sanità, i sistemi pubblici costano meno – In tutti i paesi sviluppati, dall’ultimo decennio del secolo scorso, la spesa sanitaria (pubblica e privata) è aumentata più del Pil, a causa sia dell’invecchiamento della popolazione che dei progressi che hanno reso le cure più costose. In Europa i valori più elevati sono in Francia (11,1%) e in Germania (10,7), i più bassi in Finlandia e Irlanda (7,5), con l’Italia è all’8,9%; ma gli Usa sono al 15,3. In tutti i paesi europei la spesa è in media per due terzi pubblica, tranne in Grecia (43%), dove però la spesa complessiva su Pil è superiore alla media europea; anche negli stati Uniti prevale la spesa privata con il 55%.

Istruzione, siamo tra gli ultimi della classe – La spesa media nel’Ue a 27 è il 5,1% del Pil. I paesi nordici spendono di più, noi siamo sotto con il 4,5. Per l’istruzione universitaria e post-universitaria siamo allo 0,8 contro la media dell’1,1, ma il gap sui risultati è ancora peggiore: nella media Ue il 23% della popolazione tra 25 e 64 anni ha una laurea (oltre il 30 in alcuni paesi), da noi solo il 13. Abbiamo il 21% di abbandoni prima del diploma, mentre la media comunitaria è al 15.

Inoltre, arriviamo regolarmente fra gli ultimi nei test internazionali di preparazione degli studenti medi. Ma in questo caso la nostra media nasconde più cose di quelle che mostra. Gli studenti del Nord-Est, infatti, ottengono punteggi superiori alla media Ocse; quelli del Nord-Ovest sono in linea; quelli del Centro un po’ al di sotto; nel Sud, e soprattutto nell’area Sud-Isole, i punteggi crollano rovinosamente. Anche rispetto al tipo di scuola le differenze sono notevoli: la preparazione degli studenti dei licei non ha nulla da invidiare a quella dei colleghi stranieri, e anche quelli degli istituti tecnici non sfigurano troppo; a far crollare la media generale sono i risultati degli istituti professionali.

Dulcis in fundo: le pensioni finanziano il bilancio pubblico – Un aspetto, questo, che era già stato rilevato gli scorsi anni. Le statistiche sulla spesa previdenziale prendono in esame gli esborsi lordi dello Stato, senza considerare se sulle pensioni si paghino poi le tasse (come da noi) oppure se siano esenti (come in Germania). E’ evidente che c’è una bella differenza: se lo Stato mi dà con una mano e si riprende una parte con l’altra, parlando di spesa bisognerebbe considerare l’esborso netto. Ebbene, se si tiene conto di questo fattore, il saldo fra contributi e tasse versati e pensioni erogate non solo non è in passivo, ma contribuisce alle casse dello Stato per circa 11 miliardi (dati 2006).

Le ripetute riforme degli ultimi 15 anni hanno stabilizzato la spesa pensionistica (pubblica) rispetto al Pil, ma il problema ora è che le pensioni future saranno troppo basse, e, per alcune categorie come i lavoratori autonomi e soprattutto quelli con occupazione discontinua, sicuramente insufficienti a garantire una vecchiaia traquilla. Osserva il Rapporto: un lavoratore dipendente con 65 anni di età e 35 annualità contributive – che nel sistema pre-riforme andava in pensione con un tasso di sostituzione (ossia l’importo della pensione rispetto all’ultimo stipendio) del 67%, e di circa il 77 se dipendente pubblico – nel 2035, con l’adeguamento dei coefficienti di trasformazione (quelli che riducono gli importi per tener conto dell’allungamento della vita), avrà un tasso di sostituzione del 48,5%, che potrà arrivare al 64 se lavorerà altri 5 anni. I parasubordinati, con 60 anni e 35 di contributi, avranno invece un tasso di sostituzione del 37,5%: sempre che ce la facciano ad avere 35 anni di contributi, visto che spesso la loro occupazione è discontinua; quasi sempre, inoltre, le loro retribuzioni sono più basse della media e quindi sarà già tanto se riusciranno a maturare una pensione di meno della metà dei dipendenti. Una cifra con cui, probabilmente, non si riuscirà a sopravvivere.

Ancora un cenno ai Fondi pensione, a cui ha ormai aderito il 25% dei lavoratori. Nel 2007, osserva il rapporto, i rendimenti al netto delle spese di gestione sono stati negativi, tanto più quanto più alta era la componente azionaria del Fondo scelto. Si può aggiungere che nel 2008 difficilmente andrà meglio. Ma un altro fattore da controllare attentamente è proprio quello delle spese, che possono essere molto diverse tra un Fondo e l’altro e, specie tra i Fondi aperti (quelli non di categoria, che si possono scegliere liberamente sul mercato) e i Fip (i Fondi assicurativi) raggiungono a volte importi anche più che tripli rispetto ai Fondi negoziali. Un costo annuo pari allo 0,5% del patrimonio accumulato, calcola il Rapporto, in 30 anni lo riduce del 14%, mentre un costo dell1,5% lo riduce del 36%. E ci sono Fondi che hanno costi anche più alti. Attenzione, dunque, quando si sceglie.

 La Repubblica, 2 luglio 2008

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