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“Dipinto perduto di Leonardo i meriti di un ingegnere cocciuto”, di Marco Vallora

Bisogna dirle, onestamente, queste cose, in un momento di cauto trionfalismo, sulle scoperte, ottimistiche, delle prove d’ipotesi che sotto le pareti trionfalistiche del Salone vasariano dei Cinquecento. A Palazzo Vecchio ci sarebbe traccia (dipinta: si parla di pigmenti depositati da mano umana) della leggendaria «Battaglia di Anghiari» di Leonardo. Che sinora si conosceva solo per gli splendenti frammenti di disegni autografi e per le (scarse e leggendarie) allusioni documentarie.

Bisogna ammettere che nei confronti dell’ingegnercocciuto Massimo Seracini, l’Accademia si era chiusa a riccio. E con pretese poco filologiche e prevenute. Aveva cercato di espellerlo dalla comunità dei «dotti che san giù tutto» (chi lavora di apparecchiature non è degno d’ascolto) e di metterlo con le spalle al muro. Perché tutto si gioca intorno alla storia del muro misterioso, che avrebbe preservato uno dei (non) tanti capolavori di Leonardo, verosimilmente un affresco. Ma è possibile che un grande intellettuale come «il» Vasari, primo «inventore» della storia dell’arte, si fosse macchiato d’un crimine di tal fatta, proponendo un oscuramento tanto clamoroso, che pure il suo Michelangelo ha perpetrato, serafico, nella Sistina?

Il problema sta proprio qui: che qualche incredulo-sprezzante il muro voleva lasciarlo lì, zitto e ben maquillato, senza interrogarlo mentre lo scienziato «pazzo» s’incaponiva ad andare a grattare sotto la pelle per scoprire che cosa si trovava. Penetrando con il ditino meccanico delle sonde endoscopiche, come San Tommaso nel costato della piaga. Chi scrive non può esser considerato un suo fan partigiano, avendolo attaccato dopo una sua conferenza troppo barricadera, in cui pareva voler sostenere che gli storici dell’arte hanno il terrore di confrontare le loro idee con le verifiche delle radiografie scientifiche. Storicamente falso. Però in questo emblematico caso un po’ di ragione l’aveva, e me lo ricordo una sera a Palazzo Vecchio abbacchiato ma non domo, in cui stava ammainando la sua impalcatura, perché il potere burocratico-sovrintendente aveva decretato: smontare!

Quei millimetrici buchini per le sonde erano giudicati lesa maestà nei confronti dei chilometri pittorici pubblicitari del Vasari. Lui ne aveva richiesti 14 decisivi, ma avevano lesinato a 7: figurarsi uno che da 37 anni cercava testardamente di «andare al di là dello specchio» dell’intercapedine ventilata! Poi era seguita una lettera in cui era richiesto di smetterla d’autorità di titillare la guancia autorevole e torturata della pittura del Vasari, rinunciando a sondare. Non firmai, perché nel dialogo più che mai sospettoso con l’ingegnere ripudiato dal consesso, continuamente da me provocato e punzecchiato, certo più che non la parete di Vasari, m’ero reso conto che era molto più documentato ed attendibile di quanto non si potesse credere (studio termografico delle pareti, prima dell’intervento di Vasari. Reazione estatica di alcuni viaggiatori di fronte alla misteriosa «Battaglia degli Stendardi». Posizionamento delle fonti luminose e tamponamenti di finestre).

Anche se la storia dell’invito-rebus «cerca-trova», dipinto su uno stendardo ha troppo sapore di «Codice da Vinci», non stupisce che il cortigiano mediceo Vasari, che deve trasformare il repubblicano Palazzo Vecchio in trionfale sede celebrativa granducale, si trovi di fronte quell’imbarazzante «reperto» anti-mediceo, che celebra una battaglia non certo cara a Cosimo, cui deve compiacere. Che fa? Se lo tiene come un cammeo ingombrante? Ovvio che vinca il cortigiano sullo storico. Come quando nel dopoguerra si scialbarono gli affreschi di Funi e Sironi, perché erano un inno a fasci littori e al Duce. E se per intuito di storico avesse preveduto la cocciutaggine di Seracini, creando un’intercapedine protettiva, «democristiana» e preveggente, invece di cancellare tutto?

La Stampa 13.03.12