attualità, politica italiana

“Quando i candidati locali contano più dei partiti”, di Carlo Galli

Per le prossime elezioni amministrative si annuncia un moltiplicarsi di formazioni e simboli nuovi dovuto alla crisi degli schieramenti tradizionali. La politica moderna ha come dimensione appropriata non la città, ma lo stato. La differenza di scala comporta anche un salto di qualità. Ma può accadere anche che i cittadini per entusiasmo o disperazione si rimbocchino le maniche e si mobilitino. È implicito, nel concetto di lista civica, che il rapporto fra politica e città sia problematico. Quel rapporto dovrebbe essere di piena adeguazione – dopo tutto, le due parole sono l´una figlia dell´altra, poiché politica è l´insieme delle cose pubbliche che riguardano la città –; e invece la lista civica si contrappone a liste elettorali non civiche, o almeno non percepite come tali. A liste che esprimono la disgiunzione fra politica e città. Com´è stato possibile ciò? E com´è possibile che una lista civica vi possa porre rimedio?
La politica moderna ha come dimensione più appropriata non la città ma lo Stato; non il libero Comune ma l´intera società civile nella sua vastità e nelle sue interconnessioni. In ogni caso, lo spazio cittadino è uno spazio diverso da quello statale, nazionale; la differenza di scala comporta una differente qualità della politica, che nella città deve confrontarsi con problemi locali, e deve promuovere uno sviluppo e una qualità della vita non necessariamente omogenei a quelli della nazione intera. Anche quando il livello locale è il laboratorio di proposte rivoluzionarie – come nei municipi “rossi” di inizio Novecento –, il “nuovo” vi si presenta con una capacità amministrativa, con un´attitudine all´ascolto ravvicinato, con uno sguardo attento e concreto che ne muta le caratteristiche. Non a caso il socialismo che a livello nazionale era diviso tra massimalisti e riformisti, era poi operosamente riformatore nei municipi e nei territori.
Perfino il tempo delle ideologie ha dovuto prendere atto della differenza municipale, della particolarità della dimensione civica. Nella rossa Bologna dal secondo dopoguerra, e fino al 2000 – oltre quindi la fine del Pci –, il “partitone” alle elezioni amministrative non si presentava nella forma politico-ideologica che assumeva alle elezioni politiche (appunto, come Pci, con tanto di falce e martello), ma col simbolo cittadino delle Due Torri: liste comuniste, ma aperte anche a personalità indipendenti, aperte alla città, che raccoglievano più voti di quelli che la sinistra sommava alle politiche. Segno che la dimensione civica riusciva a superare anche le più aspre contrapposizioni ideologiche.
Ma quella ri-cucitura fra politica e città non era alternativa ai partiti; anzi, questi si rivelavano capaci di saturare l´intera domanda di politica della società, in tutti i suoi ambiti e in tutti i suoi piani, offrendo “prodotti” diversi per pubblici diversi.
Quando, con la crisi della Prima repubblica, alla politica dei partiti si sostituì la politica spettacolo, tutta spostata sulla comunicazione e sul carisma del leader, questa politica, omogenea a livello nazionale, ha perduto la presa sui territori, che sono rimasti consegnati a gruppi locali, a clientele e a cricche ormai autoreferenziali, semplici anelli di cordate politico-affaristiche rispetto alle quali il brand politico nazionale era, ed è spesso tuttora, una copertura ideologica pubblicitaria, di pratiche sostanzialmente private, prive di respiro pubblico e civico. Non dalla forza della politica, ma dalla sua debolezza nascono le nuove liste civiche; la proposta dell´Italia delle “cento città” – poi finita nel nulla – era la manifestazione di un bisogno di civismo, di una nuova stagione della politica che assumeva la dimensione municipale non come chiusura localistica ma come ricerca di concretezza al di là della rissa mediatica, in nome di una partecipazione consapevole alla vita associata.
Oggi, in un tempo ancora diverso, nel tempo cioè della politica inefficace e delegittimata – che proprio sui territori mostra la sua collusione con l´affarismo e la faccenderia, e la sua inettitudine a risolvere i problemi che la crisi mondiale scarica sulle città –, le liste civiche, che potrebbero essere le protagoniste delle prossime elezioni amministrative, sono certamente il segnale della disaffezione fra gli italiani e la politica dei partiti; ma, accanto a una componente qualunquistica e antipolitica – che fa parte molto più del problema che non della soluzione –, accanto a velleitarie chiusure localistiche, quasi che la città potesse immunizzare dal mondo, accanto al rischio di frammentazione del tessuto nazionale, acquistano spesso anche il significato politico di una rivendicazione di autogoverno; come se, insomma, i cittadini presi dall´entusiasmo, o dalla disperazione, fossero spinti al volontariato civico, a rimboccarsi le maniche dall´urgenza di far fronte al degrado delle città e al crollo della qualità della vita.
Certo, c´è la possibilità che le liste civiche siano il palcoscenico per capetti carismatici locali, solo il veicolo di spregiudicati arrivismi, oppure non siano altro che operazioni più o meno credibili di camuffamento di ceti dirigenti locali logori e impresentabili; che improbabili candidature siano destinate a scontrarsi con la complessità della politica e a venire manipolate da vecchi marpioni del mestiere. Eppure, oltre che il segno di una crisi dei partiti – che resta il problema principale della politica (di quella crisi è infatti parte integrante anche la corruzione) – le liste civiche sono il segnale che – dopo la politica astratta delle ideologie, dopo la politica virtuale della comunicazione, dopo la politica inerte della grande crisi che stiamo attraversando – c´è ancora chi vuole invertire il circolo vizioso grazie al quale il globale scarica tutte le contraddizioni sul locale, per fare della dimensione concreta dei territori il punto d´appoggio per riqualificare il rapporto col mondo vasto e terribile. Per far rinascere la politica da dove è nata: dalla città.

La Repubblica 29.03.12

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“Tutto iniziò con il melone”, di FILIPPO CECCARELLI

C´era una volta una zucca, anzi un melone, che poi non era un frutto, ma un´antica pietra arenaria modellata in dodici costole che sembrano spicchi di un melone, appunto, però sormontato da un´alabarda. La scultura sta a San Giusto e non c´è triestino che non la senta sua. Alla metà degli anni 70, in polemica con i partiti e con gli accordi di Osimo, Manlio Cecovini, professore, fertile scrittore, nonché pontefice massimo del Grande Oriente d´Italia, scelse il Melone come simbolo del suo movimento autonomista, si presentò alle elezioni, ebbe un sacco di voti e nel 1978 divenne sindaco di Trieste.
Da qui si può far partire la storia, invero un po´ confusa e oggi ancor più ambigua delle liste civiche. Perché dopo qualche anno, in una tv privata di Taranto, AT6, si fece notare un tipo molto diverso da Cecovini. Giancarlo Cito era un geometra populista con una spiccata vocazione per le traversate a nuoto e le tele-invettive: «Ladri – gridava ai partiti – farabutti, cessi!». Anche lui, «il Noriega di Taranto», come lo designò Sandro Viola in un fantastico articolo, diventò sindaco della sua città.
Mentre a Palermo, sempre nel tempo in cui la Prima Repubblica stava per tirare le cuoia, un giovane democristiano come Leoluca Orlando sindaco lo era già, illuminato per giunta da una radiosa primavera anti-mafia. Ma agli inizi degli anni 90 abbandonò lo Scudo crociato per fondare la Rete, che nell´isola in un primo momento andò assai bene.
Poi sì, certo, gli anni passano, per cui Cecovini è morto e Cito è finito male (sebbene se ne trovi traccia nel poema Addio al Sud di Angelo Mellone, Irradiazioni); quanto a Orlando, la nostalgia l´ha spinto a riprovarci. Ma proprio la storia di queste esperienze, tanto brevi quanto incandescenti, rivela che allora non solo il declino dei partiti si andava inesorabilmente accentuando, ma che le liste civiche erano soprattutto destinate a incrociarsi con i mutamenti delle forme della politica: personalizzazione, centralità televisiva, ideologia della società civile o “gentismo”, ansia del nuovo o “nuovismo” che dir si voglia.
A partire dal 1993 la rivoluzione dei sindaci (Castellani a Torino, Cacciari a Venezia, Rutelli a Roma, Bassolino a Napoli, Bianco a Catania) portò diversi di loro a immaginare che si potessero sostituire le antiche appartenenze con nuove identità cittadine, orgoglio municipale ad alto impatto comunicativo. Ci furono anche dei tentativi di ritrovarsi in un unico movimento, quel “CentoCittà” che con sottile perfidia l´allora presidente Amato liquidò all´istante ribattezzandolo «CentoPadelle».
Ciò nondimeno, in vista del secondo mandato, alcuni di quei sindaci marcarono una specie di separazione con il partito o i partiti d´origine, peraltro ormai ridotti al lumicino, varando liste d´appoggio personali composte di figure provenienti da ambiti lontani dalla politica – anche se spesso non dal potere. A Roma quella di Rutelli fu detta “Lista Beautiful”, per via dell´implicita piacioneria dei candidati. Comunque ebbe successo. E da allora proliferarono le liste civiche personali, più o meno beautiful, vincenti o perdenti, a nome Tajani, Moratti, Illy, Soru, Galan, Veltroni, Biasotti, Marrazzo, Penati, Loiero, Pasquino, Polverini, ma il censimento è incompleto.
A complicare la faccenda c´era anche – e c´è ancora – chi è arrivato a proporre una lista civica nazionale: dagli ex girotondi a Luca di Montezemolo fino al sindaco di Bari Emiliano. E con lui ci si fermerebbe pure, senza facili ironie sui civici molluschi, ma con la più netta impressione che tra Forza Verona e Forza Alemanno, Forza Monza e Forza Brambilla c´è spazio per Forza Tutto, ma anche per forza niente.

La Repubblica 29.03.12

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“La nuova moda nazionale”, di ILVO DIAMANTI

Le liste “civiche” hanno una storia lunga, in Italia. Nella Prima Repubblica sono state utilizzate alle elezioni amministrative. Da leader e gruppi locali per sottrarsi alle appartenenze di “partito”. Oppure, al contrario, promosse proprio dai partiti maggiori. Nei comuni più piccoli: per sfruttare il sistema maggioritario, eleggendo oltre ai consiglieri di maggioranza, anche quelli dell´opposizione. Ma, a volte, anche in quelli più grandi, per dare un´identità cittadina, cioè: “civica”, al partito dominante. Oggi, però, le “liste civiche” conoscono un successo, del tutto particolare. Soprattutto e anzitutto, di nuovo, alle elezioni amministrative. Almeno dal 1993. Da quando è entrata in vigore la legge che stabilisce l´elezione diretta del Sindaco. Da allora, infatti, i candidati Sindaci – soprattutto se in carica – hanno valorizzato e sfruttato la loro capacità di attrazione promuovendo “liste personali”. Le “liste del sindaco”, appunto. Utilizzate, talora, anche a livello regionale e provinciale. Le “liste del Presidente”. I partiti nazionali vi si sono adeguati, in modo più o meno convinto. Facendo di necessità virtù hanno accostato le loro liste a quelle del candidato. Oppure hanno cercato di de-partitizzare la loro identità rendendola più aderente al territorio. Limitandosi, perlopiù, ad accostare al marchio del partito il nome della città, regione oppure area in cui si presentano. Liste civiche fittizie, insomma. Partiti nazionali mascherati.
Da qualche tempo, però, le liste civiche sono divenute “tendenza di moda”. In ambito locale, vengono promosse dai leader per marcare le distanze dal partito. Per rivendicare la propria autonomia personale. Come ha fatto Flavio Tosi a Verona. Oppure, per sperimentare soluzioni e alleanze inedite, che superino i confini degli schieramenti oltre che dei partiti. Ma le Liste civiche stanno conoscendo una certa popolarità anche in ambito nazionale. Almeno come ipotesi. Prospettiva. Minaccia. Vi ha fatto riferimento, in modo esplicito, Silvio Berlusconi, alla ricerca di un marchio e di un prodotto nuovo e diverso da lanciare sul mercato elettorale. Ma se ne parla, da qualche tempo, anche per dare rappresentanza alla grande popolarità di cui gode il governo tecnico e soprattutto il premier, Mario Monti. I sondaggi ipotizzano, infatti, che una lista riferita direttamente al Premier potrebbe raccogliere oltre il 20% dei voti. Un terzo dei quali intercettati da coloro che attualmente non si esprimono, perché non si sentono rappresentati dall´attuale offerta politica. Dagli attuali partiti. Il che chiarisce i caratteri e i confini della spinta verso le liste “civiche” in questa fase. Riflette, principalmente, due componenti. Da un lato, rispecchia l´insofferenza verso gli attuali partiti, distanti dalla società. Verso la malattia oligarchica che li affligge. Dall´altro, intercetta e rende visibile uno spazio effettivamente non rappresentato dai partiti –tradizionali e nuovi – né dai valori e dalle distinzioni che essi propongono. Destra e sinistra. Berlusconismo e antiberlusconismo. Vecchio e nuovo. Perfino Nord e Sud. Infine, l´interesse sollevato dalle liste civiche riflette l´importanza assunta, negli ultimi vent´anni, dalla “personalizzazione”. Le Liste civiche, cioè, evocano la relazione tra le “persone” che si rivolgono “direttamente” a una “persona”.
Conseguenza del clima populista diffuso ovunque. Senza distinzioni di appartenenza – politica e sociale. Ma al tempo stesso segno della domanda di rinnovamento (della politica e della democrazia). Da troppo tempo annunciato. Da troppo tempo deluso.

La Repubblica 29.03.12