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Ricerca e innovazione le chiavi di volta per vedere la crescita", di Ilaria Vesentini

Una metafora e tre storie intrecciate raccontano i dodici faticosi mesi appena chiusi dall’economia emiliano-romagnola, con un Pil sceso dell’1,4% (meglio comunque del -1,8 in Italia, secondo Prometeia e Unioncamere regionale), un valore aggiunto manifatturiero arretrato di 2,2 punti, investimenti calati del 5,3%, altre 6mila aziende perse in un anno e un tasso di disoccupazione record (per la virtuosa Emilia) all’8,6%. Una caduta rallentata, rispetto all’anno prima, ma pur sempre una caduta, non compensata da un export salito di un paio di punti, unico segno più nel panorama produttivo tra Piacenza e Rimini.
La metafora è quella delle città invisibili di Italo Calvino, del disordinato e stratificato disegno architettonico di Zenobia, cui ricorre il direttore del centro studi camerale, Guido Caselli, per paragonare il modello di sviluppo economico-sociale della regione, oggi al bivio. «Come gli abitanti di Zenobia ci siamo così adattati al nostro vivere che fatichiamo a immaginare un modello di sviluppo differente. Non solo ancora brancoliamo nel tunnel in cui correttamente un anno fa scorgevamo una luce all’uscita, ma abbiamo smarrito il senso dell’orientamento. La prima domanda da porci riguarda la direzione di marcia da seguire».
Per capire la traiettoria di un territorio abituato a eccellere nell’industria (che vale il 30% del suo valore aggiunto contro il 25% in Europa) e oggi è appiattito sulla media del Paese, bisogna leggere i tre differenti racconti dell’economia regionale che escono dal 2013. Il racconto congiunturale di una crisi inedita per intensità e durata, con un Pil ancora 8 punti sotto i valori del 2007 e una produzione industriale che ha perso il 25% in sei anni, dove si avvicina pericolosamente la soglia del 9% di disoccupazione, di riflesso a imprese e occupati che diminuiscono dell’1,4% nei dodici mesi. «Dove tutti i settori e tutte le dimensioni di industria perdono fatturato, produzione e ordini. Solo chi esporta più del 50% del fatturato – precisa Caselli – è già tornato oltre i valori pre-crisi».
Il secondo racconto è quello del terremoto, «di una disgrazia trasformata in opportunità, della coesione sociale tra cittadini, imprese e associazioni che ha permesso di ripartire subito e meglio di prima e ha trattenuto qui tutte le multinazionali», commenta l’assessore regionale alle Attività produttive, Gian Carlo Muzzarelli, che ha in cantiere da mesi la legge sull’attrattività per agganciare investimenti, ma annuncia intanto l’avvio di un nuovo fondo per stimolare i mestieri tradizionali e riportare gli emiliani a sporcarsi le mani. Terremoto che è però anche lentezza nella macchina degli aiuti, come testimoniano i 500 milioni appena di contributi stanziati fin qui alle imprese a fronte di 6 miliardi di euro disponibili.
Infine c’è il racconto della speranza, del futuro. Di un 2014 in cui Prometeia prevede un ritorno in positivo di tutti gli indicatori per l’Emilia-Romagna eccezion fatta per il lavoro (Pil +1,1%, consumi privati + 0,1 dopo il -2,1 del 2013, investimenti fissi lordi a +1,6%). Una risalita fondata sempre sull’export (stimato in accelerazione a +2,9%) e sull’internazionalizzazione, che si tratti di turismo, agroalimentare o meccanica (due motori che da soli valgono il 66% dei flussi oltrefrontiera). Dietro, a spingere, ci sono i plus di una regione virtuosa, «prima in Italia per qualità e quantità di risorse europee spese», rimarca Muzzarelli, prima per capacità brevettuale (301 invenzioni industriali tutelate ogni milione di abitanti contro le 155 di media italiana); seconda solo alla Lombardia per imprese coinvolte in contratti di rete (781) e per start up innovative (162), pur avendo dimensioni dimezzate rispetto alla regione del Nord-Ovest (420mila le imprese sulla via Emilia, 817mila in Lombardia). «Ora bisogna rimettere in moto l’occupazione», è l’appello del numero uno di Unioncamere, Carlo Alberto Roncarati, di fronte ai dati della Cgil che parlano di 84 milioni di ore di cassa integrazione autorizzate nei primi 11 mesi dell’anno (4 milioni in più del 2012) coinvolgendo 125mila lavoratori. Il senso di marcia lungo il quale i segnali di ripresa potranno consolidarsi è quello tratteggiato al tavolo dell’economia regionale (cui siedono categorie economiche, banche e sindacati): una «crescita sostenibile, intelligente e inclusiva». L’industria emiliana farà dunque qualità prima che quantità e investirà su R&S e design a monte, e a distribuzione e servizio a valle, più che sulla produzione; sulle high skills più che sulle competenze base, spiega l’economista di Parma, Franco Mosconi. E a garantire la competitività del made in Emilia worldwide saranno «le filiere lunghe», preconizza Caselli.
«Per dare alle imprese la possibilità di agganciare la ripresa servono però il sostegno del pubblico – ammonisce il presidente di Confindustria Emilia-Romagna, Maurizio Marchesini – sul fonte ricerca, innovazione, investimenti, detassazione, ma anche un sistema del credito capace di accompagnare le Pmi». I dati a settembre 2013 raccontano invece di prestiti bancari calati del 5% a fronte di depositi (e dunque fondi non drenati alle imprese) cresciuti di 6,6 punti.

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La maglieria di Carpi fiaccata dal sisma
CARPI (MO).
Mancano ancora venti punti percentuali per ritrovare i valori di export di cinque anni fa e non basta il +4,4% messo a segno nella prima metà del 2013 al distretto della maglieria di Carpi per suonare le campane a festa.
Tutt’altro. Non sono però le conseguenze del terremoto a preoccupare il cluster storico della moda emiliano-romagnola, dove un migliaio di piccole aziende (una su cinque è straniera, quasi sempre cinese) affiancano pochi big con marchi internazionali come Liu-Jo, Bluemarine, Stone Island). Quanto invece gli effetti della bassa vocazione all’export e del ricorso indiscriminato dei clienti al concordato preventivo che sta facendo vacillare a cascata tutta la filiera a monte. Aziende già stremate dal credit crunch, nonostante la dura selezione che hanno superato.
Perché negli ultimi vent’anni il polo dell’abbigliamento di Carpi ha perso metà delle imprese e degli occupati. E il terremoto che ha lambito quest’area ha portato nuova pioggia sul bagnato. Le aziende terremotate lamentano non tanto di non aver ancora incassato un euro pubblico per la ricostruzione post-sisma, quanto invece di aver e speso centinaia di migliaia di euro per la messa in sicurezza delle fabbriche, soldi sottratti agli investimenti su mercati e innovazione, indispensabili per sopravvivere. E oggi non vedono luci in fondo al tunnel.
Questo il quadro che gli ultimi dati aggiornati disponibili sul distretto – quelli del Monitor Intesa Sanpaolo che parlano di ripresa – non raccontano, ma che traspare dal tono cupo con cui Stefano Bonacini, presidente della Gaudì e della sezione tessile-abbigliamento di Confindustria Modena riassume le voci degli imprenditori nel cluster carpigiano.
«Per non risentire del pessimo momento congiunturale domestico – racconta – bisognerebbe avere una quota export superiore alla metà del fatturato. Mentre qui le aziende più grosse si fermano al 30% e le piccole realtà che lavorano per private label e la distribuzione non arrivano al 5 per cento.
In dodici mesi Gaudì è passata dal 20 al 40% di export, ma il problema non è più vendere, è incassare. Se vogliamo uscire da questo imbuto dobbiamo cominciare a vendere ai negozi solo in contanti. Il concordato di Mario Monti grida vendetta: non si può permettere a un’azienda di sistemare i conti per salvare i posti di lavoro mettendo in ginocchio i propri fornitori e relativi dipendenti».
I. Ve.

da Il SOle 24 Ore 08.01.14