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«Riforma Gelmini. La sostanza del sistema che tagliando lo studio macina le generazioni», di Benedetto Vertecchi *

L’orario di funzionamento della scuola equivale a quello delle lezioni. Così, colpevolmente, si tralascia il resto delle attività educative. Ovvero l’interazione tra studenti e quella con gli insegnanti, e lo sviluppo di progetti che richiedono il congiungimento di pensiero e azione

Occorre chiedersi se la legge approvata in via definitiva dal Senato qualche giorno prima di Natale costituisca solo una razionalizzazione (almeno nelle intenzioni di chi l’ha promossa) nel funzionamento del sistema universitario o se ad essa si colleghino implicazioni molto più ampie, e tali da configurare nel complesso un cambiamento sostanziale del ruolo che gli studi superiori hanno finora assunto nel sistema educativo e, più in generale, nella società.
Una razionalizzazione comporta, infatti, che si sia in grado di incidere sul funzionamento del sistema: ma questo obiettivo, che suppone siano effettuati investimenti consistenti, appare rinviato a tempi migliori. Viene quindi da pensare che l’intento realmente perseguito sia stato il secondo, e cioè la sostituzione del modello degli studi superiori derivante dalla tradizione universitaria con una diversa concezione della quale si incominciano a vedere i principali elementi costitutivi.
Per cominciare, ed è questo l’aspetto sul quale vorrei qui soffermarmi, c’è stata la sostituzione di un’ idea degli studi universitari come rivolti al perseguimento di benefici di lungo periodo con una attenta a considerare l’utilità del sistema nel tempo breve. Con tale sostituzione si completa un disegno di revisione del sistema educativo già ampiamente definito al livello primario e a quello secondario. E proprio l’analisi delle scelte effettuate a tali livelli consente di ricavare, per analogia, elementi interpretativi applicabili anche agli studi superiori. Il criterio seguito è consistito nella riduzione ad un limite inferiore del tempo dedicato all’educazione. Gli allievi delle scuole primarie e di quelle secondarie fruiscono di un’offerta didattica che suppone aggiunte consistenti nel tempo non scolastico. In pratica, l’orario di funzionamento delle scuole tende a coincidere con quello delle lezioni. Ma le lezioni sono solo una parte dell’attività educativa delle scuole. Ad esse dovrebbero aggiungersi le attività che prevedono più intense interazioni degli allievi fra loro e degli allievi con gli insegnanti (iniziative di gruppo), l’applicazione degli elementi forniti in chiave sistematica in contesti e situazioni determinate (per esempio, nei laboratori), lo sviluppo di progetti che richiedono il congiungimento del pensiero con l’azione (nel campo teatrale, musicale, letterario, artistico, naturalistico, scientifico, sociale). Quando, per giustificare decisioni limitative del tempo scolastico si afferma che gli orari delle lezioni sono più o meno equivalenti a quelli che si osservano in altri paesi, si dice il vero per ciò che riguarda le lezioni, ma si mistifica circa la consistenza dell’impegno educativo, che nelle nostre scuole prevede una presenza solo filiforme delle altre attività. Accade il contrario altrove: se si considera l’orario di funzionamento (non solo delle lezioni) delle scuole francesi, inglesi, tedesche, spagnole e via seguitando si constata che quelle che in modo riassuntivo sono state indicate come altre attività assorbono frazioni sempre più consistenti di un tempo scolastico che si prolunga dal mattino al pomeriggio avanzato. La linea evolutiva del sistema educativo appare dunque orientata nella direzione inversa a quella che si persegue altrove (anche in paesi governati da forze conservatrici).
La limitazione del tempo corrisponde da un lato ad un accrescimento delle condizioni di svantaggio sociale (gli allievi meno favoriti non fruiscono delle opportunità compensative fornite dalle famiglie e dal contesto), dall’altro ad un prevalere della concezione di un’utilità a breve termine su quella di un beneficio educativo che abbia come riferimento l’intero corso della vita. Proprio in questo consiste la continuità fra il modello di università implicito nella legge da poco approvata e i livelli primario e secondario di istruzione. Nel caso dell’università all’intento dell’utilità a breve termine si aggiunge una ridefinizione degli spazi per la ricerca prevalentemente rivolta a sostenere le esigenze del sistema produttivo.Non si può dire che la subordinazione della ricerca e degli studi superiori sia un fenomeno solo italiano. Ma se si pone attenzione ai fenomeni in atto altrove ci si accorge che nei paesi in cui il condizionamento esercitato dal mondo produttivo è più forte esistono oasi protette che hanno lo scopo di consentire che il sistema universitario continui ad operare un’accumulazione conoscitiva che non presenti caratteri di utilità immediata.
Ciò vale in Inghilterra come negli Stati Uniti, ma anche in altri paesi le università che nelle graduatorie occupano le posizioni più favorevoli sono quelle che sono impegnate nell’accumulazione di lungo periodo. La scomparsa delle università italiane dalle top 200 nel world ranking pubblicato dal Times Higher Education conferma la scelta utilitaria e il disimpegno (salve le solite eccezioni, spesso solo indice di una ostinata volontà di resistenza da parte di studiosi e gruppi) nei diversi settori della ricerca.
Il fatto è che il disimpegno nella ricerca riduce le possibilità di successo anche della scelta utilitaria. Le nostre università diventano sedi decentrate di diffusione di una sapienza pratica alimentata dalla ricerca che si svolge in altri paesi e condizionata dalle richieste del sistema produttivo. Si attiva così una spirale al ribasso, il cui elemento dinamico è costituito dal crescere della distanza tra le sedi in cui la conoscenza è acquisita e quelle in cui è solo distribuita.
I comportamenti delle famiglie nei confronti degli studi universitari sono sempre più simili a quelli che le medesime famiglie manifestano nei precedenti livelli del sistema educativo. In questo caso non si tratta di assicurare opportunità integrative, ma di sostituire in tutto o in parte gli studi che potrebbero essere effettuati in Italia (e che tradizionalmente si effettuavano in Italia) con studi compiuti all’estero. Le università italiane spesso non si rendono conto che con il loro marketing dissennato concorrono a svalutare i titoli che conferiscono accrescendo la desiderabilità di quelli conseguiti all’ estero. La leggerezza con la quale sono riconosciuti percorsi di studio offerti dalle università cosiddette telematiche (ovvero di università dimidiate, per il fatto che non svolgono attività di ricerca, neanche per assicurare l’innovazione nelle soluzioni tecnologiche utilizzate) costituisce il segnale del disarmo in atto nell’accumulazione delle conoscenze. Chi paga il prezzo della scelta utilitaria sono i giovani: effettuano un percorso scolastico che assume e conserva validità solo se integrato dall’ esterno, e conseguono titoli universitari ai quali corrispondono capacità di fare in rapida dissoluzione. La macina della gioventù alimenta i bisogni del sistema produttivo: eppure, specialmente in questi anni di crisi economica, si sarebbe dovuto capire che perseguendo intenti di utilità a breve dalla crisi, bene che vada, si potrà uscire dal basso.

*ordinario di Pedagogia sperimentale Roma Tre

da L’Unità