attualità, lavoro

«L'eredità che resta all'Italia», di Luigi La Spina

Conclusa la votazione sul futuro di Mirafiori e in attesa di conoscerne il verdetto, si può osservare che l’altissima affluenza alle urne ha testimoniato la profonda consapevolezza dell’importanza di questa scelta per i destini individuali e concreti sia dei 5500 lavoratori direttamente interessati, sia per tutti coloro che, fuori da quei cancelli, sanno che anche la loro sorte è legata allo sviluppo produttivo di quella fabbrica. Ma costituisce anche il segnale di come sia stato compreso pure il valore simbolico che ha ormai assunto questo risultato, caricato inoltre, nei giorni scorsi, da una discussione a volte troppo astratta, con toni esasperati e inquinati da pregiudizi ideologici e polemiche strumentali.

Era forse inevitabile, del resto, una reazione così accesa alla proposta Fiat per Mirafiori perché non si può sottovalutare la sua forte carica innovativa, anche oltre gli stretti confini delle relazioni industriali, almeno per due motivi: la chiarezza con la quale si sono poste le condizioni all’Italia di un mercato globalizzato e altamente competitivo, quale quello dell’auto, e l’impossibilità di risolvere il confronto con le vecchie liturgie politico-concertative di un consenso da raggiungere ad ogni costo. Semplicemente perché quel possibile costo rischia di escludere il progetto dalle compatibilità del mercato. In un Paese dove i settori protetti da corporazioni agguerrite e non esposti a una concorrenza aperta e mondiale sono la maggioranza, il solo aver presentato, senza ipocrisie e senza possibilità di dilazioni a tempi infiniti, tali problemi ha avuto perciò un effetto dirompente.

La speranza è quella che il risultato del voto confermi le prospettive di un forte sviluppo dell’attività nello stabilimento di Mirafiori, condizione essenziale pure per il lavoro nell’indotto, ma anche per il futuro economico e sociale di tutto il territorio torinese. Ma, da domani, qualunque sia il verdetto e la sua proporzione tra i «sì» e i «no», è necessario che si allarghi il carico di responsabilità che si è abbattuto, ingiustamente, solo su 5 mila e 500 persone. Sì, perché è parso che solo da loro, dal loro comprensibile e comunque difficile travaglio di coscienza, dipenda tutto il futuro della manifattura italiana e, magari, dell’intero settore dell’industria nazionale.

Le questioni che hanno determinato il voto a Mirafiori, infatti, coinvolgono i destini, le condizioni di vita di milioni di nostri cittadini e la posizione dell’Italia nella competizione mondiale dei prossimi decenni. Tocca al governo porle al centro della sua attività, al Parlamento farne il tema dominante del dibattito politico. Così come le forze sociali organizzate, a partire dalla Confindustria e dai sindacati, non possono certo assumere la posizione di «tifosi», più o meno accesi, delle parti in causa. Perché i vecchi rifugi corporativi e assistenziali non reggono più le novità di economie e di società in cui le regole sono profondamente cambiate.

E’ vero che, in una democrazia, le condizioni del lavoro non possono essere solo sottoposte ai voleri del mercato, ma le tutele dei diritti, proprio in una democrazia, non possono essere difese solo per alcune categorie e trascurate per altre. Onestà intellettuale dovrebbe costringere a non ignorare l’ingiustizia che si compie nei confronti di tanti giovani disoccupati, di tanti lavoratori precari, costretti a una flessibilità esasperata e di cui non si vede mai la fine, che non sono difesi da nessun sindacato e la cui voce non ha mai alcun megafono per essere ascoltata.

Ecco perché il futuro dell’industria italiana, ma pure dell’economia italiana, non può dipendere e non si può caricare sulle spalle di coloro che hanno votato a Mirafiori. Anche perché è legato alle condizioni generali del cosiddetto «sistema paese»: lo sviluppo delle infrastrutture, le semplificazioni normative e burocratiche necessarie per alleviare il carico di adempimenti per chi vuole avviare una attività, la struttura di una imposizione fiscale squilibrata e non favorevole al lavoro, una riforma del Welfare che dia anche un po’ di serenità a quelle categorie che oggi ne sono ancora escluse. Infine, forse la condizione più importante: una scuola e una università che riprendano la funzione fondamentale in una democrazia. Quella di una formazione educativa e professionale che favorisca una mobilità sociale ormai negata, di fatto, nell’Italia d’oggi e che, insieme, metta i nostri giovani nelle condizioni di trovare un lavoro dignitoso.

da www.lastampa.it

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«Le tute blu tra rabbia e frustrazione “Lasciati da soli a decidere per tutti”», di Paolo Griseri
Ai cancelli spunta anche il senso pratico: “Votare no è giusto, ma anche un lusso, chi ha famiglia accetterà l´accordo”

TORINO – Non capisci se sono più arrabbiati con la Fiat, con i sindacati, con la politica o con i media che da una settimana hanno trasformato il piccolo spazio davanti al cancello della porta due in un set dove va in scena il primo scontro operaio del nuovo millennio. L´unica certezza è che sono davvero arrabbiati. «E sai perché?», chiede polemico Luciano, 46 anni, 25 passati in Fiat e una gran voglia di spegnere gli altoparlanti degli operai di Pomigliano che assordano la piazza con la pernacchia di Eduardo rivolta a Marchionne. Perché è arrabbiato Luciano? «Perché tanti hanno preferito caricarci sulle spalle un peso che per noi è troppo grande. Siamo operai. Siamo un gruppo anche abbastanza piccolo: noi cinquemila dobbiamo votare e scegliere per tutta Italia. Ma che senso ha? Perché ci hanno lasciati soli? Lo vedi il casino che c´è qui davanti? In fondo al corso, alla porta tre o quattro, non c´è nessuno, la vita è normale, un altro mondo che continua indifferente e ci guarderà alla sera in tv. Perché noi che siamo solo una fetta di Mirafiori dobbiamo scegliere per tutti?». Pasquale non dice che cosa ha votato. Si fa largo come tutti nella selva di microfoni, nell´accampamento dei Cobas, tra le bandiere dell´Usb, tra i camper dei sindacati e quelli delle tv. Prova a riferire i ragionamenti fatti con i compagni in fabbrica in coda davanti al seggio: «Io li capisco quelli che votano sì. Anche se non è giusto, anche se per principio sarebbe giusto votare no. Ma se ci chiudono la fabbrica, che cosa rimane? Fuori da qui non c´è nulla. Diciamola così: chi non ha figli può votare no perché è giusto; chi li ha finisce per votare sì perché deve crescere la famiglia. Votare no è un lusso».
Alle spalle di Pasquale la piazza si anima improvvisamente. Una lite tra delegati degli opposti schieramenti. Volano insulti ma dura poco: il tempo di accendere le telecamere, una ripresa e via, lo scontro è finito. Inevitabilmente Mirafiori è tornata simbolo. Arrivano tutti, anche le scolaresche, come fosse un museo o uno dei luoghi dell´unità d´Italia che in questi mesi Torino celebrerà con particolare impegno: «Siamo una classe del liceo artistico Cottini, ci ha portati il professore». Il professore non declina le generalità: «Meglio così, poi capita che qualcuno protesta. Ma ho pensato di portare i ragazzi perché, in fondo, possono assistere in diretta a un momento storico che potrebbe cambiare la storia delle relazioni industriali in Italia». In effetti la sede del liceo si trova dall´altro lato della strada. Tenere la lezione come se nulla fosse sarebbe stato impossibile (per l´assordante rimbombo degli altoparlanti) e forse assurdo.
Nel frastuono del giorno decisivo c´è chi, come Ugo Monzeglio, pensa al domani. E´ stato un militante della Fiom negli anni ´80 poi è passato in Cgil, ora è pensionato. Fa parte di quelli che consigliano alla Fiom di firmare se vince il sì: «Io penso che uscire dalla fabbrica sarebbe comunque un grave errore. La Fiat è così: una volta che sei uscito non ti fa più rientrare». Pochi passi più in là compare Rocco Larizza, ex operaio delle Meccaniche, ex senatore, l´ultimo segretario dei Ds di Torino prima della nascita del Pd, una vita in Fiat e nel Pci. Rocco ha un punto di vista diverso da Ugo: «Io invece penso che la Fiom non debba firmare. Anche se vince il sì. Perché firmare vorrebbe comunque dire gettare la spugna su una battaglia che è per la difesa dei diritti». Ma così la Fiom rimarrebbe fuori dalla fabbrica. Non è rischioso? Rocco sorride sotto il cappellino: «Se non firma tiene aperta una battaglia. Se firma, la chiude».

da www.repubblica.it