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«Il patto diseguale», di Massimo Giannini

La vera sfida di Mirafiori comincia adesso. Sapremo solo a notte fonda l´esito del referendum . Ma quando il nuovo paradigma della modernità impone una riscrittura così radicale del patto tra Capitale e Lavoro, rifondandolo sullo scambio disuguale e asimmetrico tra un salario e il nulla, l´esito sembra scontato.
«Vinceranno i sì, anche se in molti avrebbero preferito votare no», era la previsione della vigilia. I primi voti scrutinati danno un risultato diverso, con i sì e i no in bilico intorno al 50%. Già questo sarebbe un risultato clamoroso, che potrebbe far saltare tutti gli scenari. Con la sua consueta, lapidaria schiettezza, l´amministratore delegato del Lingotto Sergio Marchionne aveva spiegato la sua linea: se prevalgono i sì andiamo avanti con l´investimento e diamo una scossa all´Italia, se prevalgono i no ce ne torniamo a festeggiare a Detroit e ce ne andiamo a fare auto in Canada. Una posizione «win-win»: io vinco comunque. La realtà è assai più complessa. In attesa di capire l´esito della consultazione, qualcosa si può dire subito. Su due punti fondamentali: i contenuti dell´accordo e sulle prospettive che si aprono.
1) Sui contenuti dell´accordo. È diseguale lo scambio sui diritti (ammesso che su questo terreno, nonostante la dura legge della globalizzazione, qualcosa si possa e si debba scambiare nelle democrazie occidentali). Ma si potrebbe dire: hai ceduto sul diritto individuale allo sciopero, hai ceduto sul «mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d´azienda», hai ceduto sui «diritti di costituzione e di assemblea delle rappresentanze sindacali aziendali». Ma in cambio hai ottenuto la versione italiana della Mitbestimmung, cioè la co-gestione conquistata da decenni dai sindacati tedeschi della Ig-Metall, presenti nei consigli di sorveglianza della Volkswagen, oppure la partecipazione all´azionariato ottenuta dai sindacati americani dell´Uaw, presenti nei consigli di amministrazione con il 63% della Chrysler. E invece non è così.
È diseguale lo scambio sulle retribuzioni (ammesso che siano vere le cifre scritte dall´azienda sull´accordo separato). Si potrebbe dire: hai ceduto sulle pause ridotte, hai ceduto sui turni, hai ceduto sulle indennità di malattia. Ma in cambio hai ottenuto l´allineamento del tuo salario medio annuo (23 mila euro in Italia) a quello dei tuoi colleghi tedeschi (42 mila euro in Germania). E invece non è così. La tua pausa ridotta vale 18 centesimi l´ora, cioè un euro al giorno, cioè 32 due euro al mese, lordi e persino esclusi dal calcolo del Tfr. Il tuo straordinario possibile, 120 ore all´anno, è a discrezione dell´azienda, vale teoricamente 3.600 euro di aumento futuro, ma sconta una contraddizione attuale: l´accordo prevede «la cassa integrazione straordinaria, per crisi aziendale… per tutto il personale a partire dal 14 febbraio per la durata di un anno». Come potrai fare lo straordinario, se starai in Cig per tutto il 2011?
2) Sulle prospettive future. Resta il sospetto che fossero vere le affermazioni sfuggite a Marchionne a «Che tempo che fa», il 24 ottobre: «Senza l´Italia la Fiat potrebbe fare molto di più…». Produrre auto in Italia, per la Fiat, è un problema che neanche l´accordo su Mirafiori può risolvere. Al supermanager italo-svizzero-canadese, apolide e multipolare, il Belpaese non conviene. Per due ragioni di fondo.
Non c´è convenienza «politica». Lo dicono i fatti. Finora il salvataggio e il rilancio della Fiat sono avvenuti sulla base di uno schema collaudato con gli Stati: io costruisco, salvo o rilancio le fabbriche, tu mi paghi. È avvenuto in una prima fase in Italia, finchè sono andati avanti gli ecoincentivi. È accaduto in Messico, dove il Lingotto ha ottenuto un prestito statale da 500 milioni per rifare l´impianto di Toluca. È accaduto in Serbia, dove per l´impianto di Kragujevic il gruppo incassa un contributo statale di 10 mila euro per ogni assunzione. È accaduto in America, dove l´operazione Chrysler è passata attraverso il «bailout» pubblico da 17 miliardi di dollari. E sta accadendo in tutti gli altri Paesi dove la Fiat vuole essere presente, dal Canada al Brasile, dall´Argentina alla Polonia.
Nel mondo i governi stanno spendendo soldi per salvare l´auto, e tra i principali stakeholder del settore ci sono proprio gli Stati. Obama ha speso 60 miliardi di dollari per le Chrysler, Ford e Gm. Sarkozy ha speso 7 miliardi per Psa-Renault. La Merkel ha speso 3 miliardi per la Opel. In Italia gli aiuti pubblici sono finiti nel 2004. Per la Fiat, dunque, lo Stato non è un interlocutore. E non lo è il governo, che non ha un euro da spendere e un «titolo» per intervenire. Ecco perché Marchionne può andarsene, se crede e quando crede, con la «benedizione» di Berlusconi, che in due anni (di cui quasi uno da ministro dello Sviluppo ad interim) non ha trovato il tempo per convocare almeno una riunione sul caso Fiat.
Non c´è convenienza economica. Lo dicono i numeri. La Fiat produce all´incirca 2,1 milioni di automobili l´anno. Circa 730 mila sono in Brasile, dove lavorano 9.100 dipendenti: ogni operaio sforna 77,6 automobili. Circa 600 mila in Polonia, dove lavorano 6.100 dipendenti: 100 auto per ogni operaio. In Italia 22.080 operai producono meno di 650 mila auto: 29,4 auto per dipendente. Il tasso medio di utilizzo degli impianti, da noi, oscilla tra il 30 e il 40%, con punte bassissime a Cassino (24%) e a Pomigliano (14%), contro una media dell´80% negli impianti dei costruttori franco-tedeschi. Su queste basi, in teoria, si fonderebbero gli accordi separati a Pomigliano e Mirafiori: bisogna lavorare di più, per schiodare l´Italia dallo scandaloso 118esimo posto (su 139) nella classifica Ocse sull´efficienza del lavoro.
Ma qui c´è il grande rebus e il grande limite della Dottrina Marchionne. Il grande rebus: riportare il coefficiente di utilizzo degli impianti a livelli competitivi è un impegno colossale: può bastare il «modello» di accordo sottoscritto da Fim, Uilm, Fismic e Ugl il 23 dicembre scorso? Nessuno, realisticamente, lo può credere. Non può bastare la rimodulazione dei turni su quattro diverse tipologie. Non può bastare la riduzione di 10 minuti delle pause giornaliere infra-turno. Non possono bastare le 120 ore annue di «lavoro straordinario produttivo». Non può bastare il disincentivo all´assenteismo basato sul mancato pagamento del primo giorno di malattia collegata a periodi pre o post festivi. Non può bastare nemmeno la «nuova metrica del lavoro» imposta dal famigerato metodo «Ergo-Uas», la scomposizione post-taylorista dell´ora di lavoro di ogni operaio in 100 mila unità di «tempo micronizzato» e la previsione pseudo-orwelliana di 350 operazioni effettuate dal singolo operaio in 72 secondi ciascuna.
Il problema della produttività non si risolve così, senza una strategia sull´innovazione di prodotto. Produrre di più per fare che cosa? Questo è il grande limite della Dottrina Marchionne. Se con un colpo di bacchetta magica il «ceo» riuscisse a far lavorare gli impianti italiani a ritmi di produttività tedeschi o americani, e se per magia ogni operaio di Mirafiori o di Pomigliano sfornasse 100 automobili all´anno come il «collega» serbo, la Fiat non saprebbe che farne. Le vetture prodotte in più resterebbero invendute nei piazzali. La Fiat non è in affanno perché la sua offerta, sul piano dei volumi, non riesce a soddisfare la domanda. Non è in affanno per ragioni di quantità, ma di qualità. È in difficoltà perché non ha nuovi modelli, soprattutto nella gamma alta e nel segmento a più elevato contenuto ecologico e tecnologico. E perché i modelli che ha soffrono sempre di più la concorrenza straniera. Nel 2010 il calo delle immatricolazioni Fiat (meno 16,7%) è il doppio della media del mercato (-9,2). E la quota di mercato si è ridotta al 30% (era 32,7 nel 2009).
Sulla carta, il rilancio di Mirafiori dovrebbe servire a colmare queste lacune. Con la produzione di «automobili e Suv di classe superiore per i marchi Jeep e Alfa Romeo». Con la possibilità di «produrre fino a più di mille auto al giorno per un totale di 250-280 mila vetture l´anno». Con l´investimento promesso che «supera il miliardo di euro, suddiviso tra Fiat e Chrysler». Questo è l´impegno del Lingotto, affidato al comunicato stampa accluso all´intesa e sottoscritto dai sindacati firmatari. Non c´è nulla, nel testo dell´accordo, che ne garantisca il rispetto. E non c´è nulla, nel misterioso piano «Fabbrica Italia» da 20 miliardi, che apra uno scenario industriale plausibile sui prossimi dieci anni. Si tratta allora di aggrapparsi disperatamente a quello che si ha, qui ed ora. E per il futuro, affidarsi a Marchionne. Una «scommessa» giocata su una «promessa». Il rischio è altissimo. Se fallisce, perdono tutti. Perdono i sindacati e la politica. Ma perde anche la Fiat. E perde anche Marchionne, anche se se ne torna a brindare a Detroit.

da www.repubblica.it

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«E Marchionne vince comunque», di Alberto Statera

Sì, è vero, le luci risplendono nella notte al quarto piano della palazzina dirigenziale del Lingotto, forse stavolta non è soltanto la pigra fantasia giornalistica a tenerle accese. E forse Sergio Marchionne e John Elkann sono davvero asserragliati lì e non nella vicina pizzeria di via Nizza ad aspettare i risultati del referendum.
Il 51% vittoria di misura, 63% vittoria piena, oltre il trionfo. Quasi un coatto plebiscito bulgaro della classe operaia a favore dell´innovazione ai tempi della globalizzazione, un risultato «storico» nella ridefinizione del rapporto malato tra capitale e lavoro. L´instancabile lider maximo Sergio Marchionne, il manager di ferro italo-svizzero-canadese che saltellando tra i fusi orari non si stanca mai, è stato descritto dalle oceaniche agiografie dilagate in questi giorni come un uomo che si attribuisce da sé la condanna a «una vita di merda», spesa tra jet intercontinentali, squallide periferie di Detroit e notti solitarie a Torino, che nella stagione meno gelida lo portano qualche volta a passeggio sotto le arcate dei Murazzi, quando non ascolta il “tinello marron” di Paolo Conte, che per umanizzarlo gli zelatori gli hanno attribuito come cantautore preferito. E´ più o meno l´ora in cui gli operai del primo turno alla catena di montaggio di Mirafiori si alzano dal letto e corrono assonnati a prendere il treno per andare in fabbrica. Loro senza il gradevole conforto dei 4 milioni e mezzo di stipendio fisso e del centinaio di milioni di stock options maturate o maturande.
Sarà un po´ stucchevole, ma una fenomenologia del vincitore di Mirafiori non può che tener conto dell´asserito e provato stakanovismo di questo figlio del popolo – il papà era maresciallo dei carabinieri – che mai in sei anni si è piegato ai riti borghesi della torinesità. Sembra niente, ma persino uno storico dell´economia autorevole come Giuseppe Berta lo considera un tratto non secondario nella vicenda che in questa gelida notte di gennaio dovrebbe far entrare per forza la globalizzazione in un corpo neghittosamente resistente come Mirafiori. Ma in fondo poco importa che la borghesia sabauda non sia mai riuscita ad averlo al suo desco e per questo lo considera poco più che un corpo estraneo. Come proclama il professor Pietro Ichino, esimio giuslavorista e senatore del Pd, Marchionne va ringraziato per la scossa che ha dato a un sistema che non può più andare avanti con relazioni ossificate, con liturgie ormai reperti di un mondo che non c´è più. Un merito tale che oscura persino, secondo gli ammiratori, l´asserita carenza di nuovi e decenti modelli di auto della Fiat, pur da tempo promessi, e il mistero che avvolge ancora il mitico programma di 20 miliardi di investimenti in cinque anni.
Esiste davvero il piano Italia e vale il sacrificio operaio della nuova organizzazione del lavoro prevista dal World Class Manifacturing? O tutti gli sforzi finanziari saranno destinati ad anticipare la presa del 51% della Chrysler? Nella vecchia fabbrica inaugurata da Mussolini nel 1939, oggi onusta di storia come nessun´altra in Europa e anche di ruggine, lo spoglio non è ancora finito, ma lassù al quarto piano o in pizzeria c´è un uomo che è un manager ma si muove come un padrone del vapore ora che la Famiglia in ritirata non interferisce più nelle prerogative manageriali, che festeggia sobriamente la vittoria. Sì, perché in fondo è una vittoria bifronte, dal momento che egli stesso ha detto che in caso di maggioranza di no gli sarebbe comunque convenuto lasciare l´Italia, trovando incredibile certificazione nell´autolesionismo del premier della Repubblica italiana.
Mirafiori sopravviverà, ma il professor Berta profetizza a buona ragione che la nuova Fiat-Chrysler e non Chrysler-Fiat marchionnesca sarà un´Idra a tante teste, dentro e fuori i confini d´Italia. Chissà che allora non torni di moda l´antico motto americanizzante: «Ciò che è bene per la Fiat è bene per l´Italia».
Molti si sono affannati a descrivere le scelte marchionnesche come dettate da esclusive esigenze aziendali per sfuggire agli ormai insostenibili barocchismi del sistema italiano di relazioni industriali. Ma nel balbettio vuoto e talvolta grottesco della politica ufficiale nessuno ha fatto più politica di Marchionne. In un colpo solo ha rivelato la rozza inconsistenza del governo e della maggioranza, ha spaccato il fronte sindacale, diviso la sinistra e il Partito democratico, che già da tempo Chiamparino considerava come una specie di insopportabile condominio litigioso al centro della capitale: «Quando arrivi a Sant´Andrea delle Fratte – ridacchia amaro – è come se ci fosse una segnaletica stradale che ti indica i diversi piani e corridoi con i nomi delle correnti e delle loro varie componenti». Uscendone, Marchionne ha coventrizzato persino la Confindustria che già non godeva proprio di buona salute. Ma chi l´ha detto che l´apolide canado-abruzzese, che il professor Berta e tanti altri a Torino giudicano una specie di Forrest Gump in termini di codici genetici e modelli borghesi alla sabauda, non sapesse perfettamente del vespaio politico in cui avrebbe messo le mani?
Correvano i primi giorni dell´ottobre scorso quando, tra lo stupore generale, bollò lo «zoo Italia», ormai privo di serietà, di rigore, di etica, di senso delle istituzioni e dello Stato, avvolto com´è in una cultura disastrosa che contribuisce ad alzare continuamente la tensione sociale. Si poteva essere più chiari?
Non era forse quasi un manifesto politico di denuncia di un Paese alla deriva che non riesce a sostenere né le imprese né i lavoratori, né i consumi né lo sviluppo, in un immobilismo senza speranza? Si chiese persino se qui la vita vale la pena di essere vissuta.
Da stanotte lo yankee subalpino senza cravatta d´ordinanza sabauda si gioca tutto qui e sul Michigan. Per carità, nessuno lo santifichi, come tende spesso a fare questo Paese, né lo butti preventivamente all´inferno. Di sicuro non è un eroe. Ma chissà che non aiuti qualche coraggioso resipiscente a tentare di uscire da questa fumante palude nazionale.

da www.repubblica. it