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"L'orrore si racconta così" di Wlodek Goldkorn

Il 27 è il Giorno della Memoria. Ma gli ultimi testimoni della Shoah stanno morendo. Così il museo di Auschwitz ha deciso di cambiare. Perché il campo diventi anche uno spunto di riflessione sul nostro domani. Non potevano pensare, e tantomeno immaginare, i soldati dell’Armata Rossa che nella loro marcia verso Berlino, il 27 gennaio 1945 scoprivano l’esistenza del lager in Alta Slesia, che quel luogo sarebbe diventato il simbolo della Shoah e l’icona della Memoria. Avevano visto ben peggio, e prima, i militari sovietici: Treblinka, campo di sterminio dove 900 mila ebrei sono passati direttamente dai treni alle camere a gas; Sobibor e Belzec di cui perfino si stava perdendo la memoria, perché non c’erano praticamente superstiti. Ad Auschwitz trovarono pochi prigionieri, per lo più malati, ma comunque vivi (tra loro Primo Levi), baracche in muratura e in legno, i resti delle fabbriche dove lavoravano per la gloria del Terzo Reich e il profitto delle sue imprese i reclusi schiavi.

Oggi, sono oltre un milione trecentomila le persone che nell’arco di un anno visitano il Museo di Auschwitz, più di quante non vanno a vedere tutti i simili luoghi di memoria altrove, messi insieme. Di questi 550 mila sono polacchi; gli altri arrivano da vari paesi del mondo (gli italiani sono 64 mila: più degli israeliani). Gli studenti costituiscono i due terzi degli ospiti. Questa statistica è importante perché il numero dei visitatori è in costante e vertiginoso aumento: quasi triplicato, rispetto al 2001. Vengono nel lager perfino oltre 35 mila coreani, 8 mila giapponesi, più di 10 mila tra cinesi e singaporesi l’anno. E allora, dato che l’Olocausto, nell’immaginario del mondo, ha assunto ormai le sembianze di Auschwitz, cosa vedono i visitatori? Che tipo di messaggio ed emozioni viene loro trasmesso? E soprattutto, cosa vedranno nel prossimo futuro? Perché, ed è questa la notizia, il museo simbolo di quello che Hannah Arendt (in una lettera all’amico Sigmund Neumann) chiamava il “male radicale”, mentre altri pensatori parlavano di “una realtà inenarrabile”, sta per cambiare pelle e adattarsi alle nuove sensibilità. Sensibilità, frutto non solo della ricerca storica più recente, ma prima di tutto del passaggio delle generazioni.

Piotr Cywinski, 39 anni, intellettuale cattolico impegnato nel dialogo tra le culture e le religioni, infanzia e studi tra Francia e Svizzera, da quattro anni dirige il museo. Ha preso tempo. Ha cercato di ascoltare, imparare, di non agire senza la necessaria ponderazione. Nel suo ufficio dentro il campo (le persiane chiuse, quasi per lasciare tutto lo spazio all’immaginazione) dice: “Sessantasei anni, quanti sono passati dalla liberazione, sono lo spazio di tre generazioni. E qui tra poco, tra i visitatori ci saranno i nipoti di gente nata dopo la Shoah”.

Aggiunge: “Dato che la memoria familiare dura non più di tre generazioni, quel tipo di memoria è in pratica estinto”. Sentita la domanda, come preservare il ricordo senza più testimoni (gli ultimi stanno per passare alla miglior vita: è la legge della natura), Cywinski tace per un attimo, e poi si lancia: “Guardi, che i veri testimoni non li abbiamo mai sentiti parlare: perché sono coloro che non ce l’hanno fatta. I veri testimoni sono diventati cenere nei forni crematori. Chi è sopravvissuto ha raccontato quello che voleva ricordarsi”. Cywinski riformula la tesi (davvero radicale) di Primo Levi de “I sommersi e i salvati”, sull’impossibilità di testimoniare fino in fondo, o se vogliamo della intrinseca inattendibilità del “reduce”. Il grande scrittore si suicidò. Oggi, quella sua tesi sta per diventare il leitmotiv del luogo di memoria per eccellenza.

Ma per comprendere meglio la portata della rivoluzione in atto occorre fare un passo indietro. Cywinski cerca di essere diplomatico: “L’attuale mostra permanente è nata dieci anni dopo la fine della guerra, e risente l’atmosfera di quegli anni, gli anni Cinquanta (la migliore guida al museo è stata appena pubblicata in italiano: Carlo Saletti e Frediano Sessi, “Visitare Auschwitz”; Marsilio, ndr.). Gli ex detenuti volevano rendere indelebili le esperienze che hanno vissuto sulla propria pelle: era il dolore che volevano esprimere”. Tradotto in parole povere, Auschwitz, fino a pochissimi anni fa è stato un luogo di guerra delle memorie, spesso di manipolazione politica.
La mostra del 1955 presenta un mondo in bianco e nero: da un lato il martirio e l’eroismo dei buoni, condito con retorica antifascista del periodo; dall’altra i boia, l’incarnazione di ogni male. E tante vere e proprie reliquie, esposte nelle teche: capelli, occhiali, valigie, scarpe. Molto orrore (qualcuno, tra i discendenti delle vittime arrivò a parlare di un “lunapark degli orrori” e chiederne la chiusura) e poca riflessione. E poi, la questione che sembra paradossale: Auschwitz è luogo di memoria della Shoah o degli antifascisti? Dei polacchi o degli ebrei? E basti pensare che il 19 aprile 1967, inaugurando il “monumento internazionale” nel campo, l’allora premier polacco parlava della resistenza, della fratellanza dei popoli, del martirio dei polacchi, ma non dell’Olocausto e degli ebrei. Si era in guerra fredda e alla vigilia della rottura di ogni rapporto tra i paesi dell’area sovietica e Israele. Ma non è solo la percezione soggettiva di chi si è voluto o dovuto confrontare con Auschwitz ad aver permesso tante e opposte chiavi interpretative.

È la struttura e la storia del lager ad averlo, per così dire, favorito. Nato nel 1940 come un campo di concentramento per prigionieri politici polacchi, solo negli anni successivi Auschwitz diventa anche un campo di sterminio, un luogo in cui i deportati vanno nelle camere a gas, senza lasciare traccia, senza neanche essere registrati, senza nemmeno avere un numero tatuato sul braccio. E poi, c’era anche un campo di lavoro, a Monowitz. “Questa triplice funzione del lager”, spiega lo storico israeliano-tedesco Dan Diner, tra i massimi esperti della materia, “ha fatto sì che ci fossero tanti ricordi e infinite possibilità di declinarli”.

Ma tutto questo è ormai passato. E così il direttore Cywinski può parlare di una nuova normalità di quel luogo fin troppo simbolico. “Non deve essere un’icona Auschwitz”, dice, “dev’essere invece un prisma attraverso cui vedere l’Europa e la sua storia, ma anche uno strumento per prepararsi ad agire nel mondo di oggi e avvenire”. Ecco dunque che al centro della nuova mostra (“Che speriamo di cominciare ad allestire tra due anni, per finirla in cinque: è un lavoro faticoso, complesso che coinvolge decine di esperti”) ci sarà la questione della “responsabilità personale”.

Il percorso attraverso il lager sarà articolato in tre tappe. “La prima avrà al centro”, dice Cywnski, “Auschwitz come progetto”. Si parlerà di architetti, ingegneri, elettricisti, artigiani, gente comune che viene coinvolta nella costruzione di un luogo, e che “non si pone la domanda a che cosa servono le strutture che ciascuno di questi uomini e donne contribuisce per edificare”. Si noterà che le sorveglianti (e lo si vede nelle foto recentemente scoperte) erano “delle belle ragazze, che potrebbero essere figlie di ciascuno di noi”. La seconda parte parlerà della Shoah, ossia della distruzione. Sì, ci saranno ancora le valigie e le scarpe (“Le scarpe suscitano emozioni fortissime nei visitatori”), ma in un contesto diverso; perché il cuore di quella parte della mostra saranno le foto, portate via dal lager dalla prigioniera Lili Jacob, ritrovate decenni dopo (in Italia pubblicate in “Album Auschwitz”, Einaudi).

Sono immagini scattate dalle Ss tra il maggio e il giugno 1944 e che documentano il cammino verso le camere a gas. Accanto ci saranno le poche foto scattate segretamente da alcuni membri di Sonderkommando, ebrei addetti a ripulire le camere a gas e a incenerire i corpi: quelle foto – sfocate, con l’obiettivo messo in perpendicolare – testimoniano gli ultimi istanti delle vittime. E neanche Cywinski trova le parole per descriverne l’impatto emozionale. E poi la terza tappa, “che sarà la narrazione del campo. Si parlerà non delle vittime e dei carnefici, del bene e del male, ma della vergogna (concetto chiave di Levi), del degrado, della “disumanizzazione” delle persone, o meglio di quello che io chiamo “l’asse del comportamento umano”, dice Cywinski. E prosegue: “La mostra deve preparare nell’immediato a visitare il lager di Birkenau, accanto”. Ne parleremo. “In assoluto deve essere uno strumento affinché chi è venuto qui sia capace di porsi domande e reagire, quando tornato a casa vede alla tv scene di genocidio nel Darfur o sente un discorso razzista contro i rom”. E qui siamo alle riflessioni della Arendt sul processo Eichmann che le costarono l’ostracismo di una buona parte del mondo ebraico.

Intanto già oggi ad Auschwitz molto è cambiato. Si parla apertamente di soldi (la Germania sta donando 60 milioni di euro: l’obiettivo è ottenerne 120 milioni per assicurare un degno futuro). E anche le 260 guide d’ora in poi non saranno tradotte, ma dovranno parlare direttamente la madre lingua del gruppo di visitatori: “L’idioma del cuore, senza mediazioni”. E ancora: il campo viene visitato da detenuti polacchi, insieme agli agenti penitenziari. E ci sono soldati e poliziotti israeliani: esempi di come la memoria serva a riflettere sul presente e a costruire il futuro. Fa infine (ottima) impressione visitare i laboratori di restauro. Vi lavora una quarantina di giovani che preferiscono conservare – usando strumenti tecnologici all’avanguardia – vecchie scarpe e carte ingiallite (“Non è feticismo, sono documenti di storia”), piuttosto che restaurare i dipinti di Velázquez. I capelli invece, sulla cui permanenza nelle teche avevano da ridire i figli e i nipoti delle vittime? “Abbiamo deciso di lasciarli deperire, fra vent’anni non ci saranno più”.

La nuova Auschwitz è possibile, perché è cambiata la storiografia. Valgano due esempi: in “Bloodlands. Europe between Hitler and Stalin”, l’americano Timothy Snyder colloca la Shoah nel quadro di massacri perpetuati in varie forme tra Polonia, Ucraina, Bielorussia, Russia, a partire dagli anni Trenta. Nel fondamentale “Lo sterminio degli ebrei. Un genocidio” (Einaudi), l’inglese Donald Bloxham parla della Shoah come del culmine di genocidi iniziati nell’Ottocento. Spiega Diner: “La Shoah segna una crisi epistemologica dell’Occidente, rende inutili gli strumenti del sapere. Allora, per poter razionalizzare l’inspiegabile, usiamo termini generici come “genocidio”. Ecco perché Auschwitz muta, ma va bene così, non possiamo vivere senza parole”.

A pochi chilometri da Auschwitz, ecco il campo di Birkenau. Il cancello, i binari della ferrovia. A destra e a sinistra i resti delle baracche. Si percorrono 700 metri di terra battuta. Sono i 700 metri che hanno fatto le vittime, a sinistra gli uomini, a destra le donne, appena scese dai treni. In fondo, prima della linea delle betulle (Birkenau vuol dire luogo delle betulle) l’enorme monumento: pietre, massi e scritte multilingue che parlano della memoria. A destra e a sinistra: le macerie dei crematori, fatti saltare in aria dai tedeschi in fuga. A fianco, da ciascun lato, simmetriche come le macerie, quattro lapidi: parlano delle ceneri sparse. E qui finisce la parola. Restano solo le lacrime.

L’Espresso 27.01.11