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"Mille sfide per un lavoro. Viaggio nella generazione che non riesce a guadagnare e a crescere", di Serena Uccello

Mentre Roberto risponde trafelato al telefono, Betty sta preparando la cena per il compagno, la figlia, la nipote. Roberto è a Roma, Betty a casa, provincia veneta. Roberto, sono le sette di sera ed è ancora in ufficio: sta chiudendo una riunione. «Ci sentiamo dopo», dice. Richiama un’ora più tardi. «Ora possiamo parlare» e si sente in sottofondo il fruscio che fanno gli auricolari. «Sono in motorino – spiega – ma se rinviamo domani sarà anche peggio». Betty e Roberto sono madre e figlio. Lui è un ingegnere con una specializzazione nel settore ambientale, un trentenne che cerca di costruirsi professione e vita, lei un’infermiera oggi in pensione. Roberto non fa parte di quel 28,9%, certificato dall’Istat, di giovani disoccupati. Non si sente un “bamboccione” perché un lavoro ce l’ha e sembra rifuggire anche da quella retorica «secondo cui i giovani sono indistitamente vittime» di cui scrive il professore Alberto Alesina in un articolo pubblicato sul Sole 24 Ore dello scorso venerdì. Roberto e Betty fanno parte dello stesso mondo e allo stesso tempo appartengono ai due mondi radicalmente diversi. La loro è una storia comune e quotidiana.
Soddisfatto? «Abbastanza – racconta – almeno io riesco a fare quello per cui ho studiato». Specifica “almeno” perché a molti suoi amici non è andata così: «Un mio amico ha due lauree, una in arte e una in lettere moderne, e al momento fa la guida turistica free lance». Poi aggiunge che questo non è affatto un caso isolato. La gran parte dei suoi coetanei colleziona specializzazioni, un po’ per colmare un vuoto un po’ perché il mercato del lavoro cambia a una velocità tale che ciò che in teoria va bene quando si comincia a studiare, cinque anni dopo può già non servire più. Gli ingegneri gettonatissimi, ad esempio, fino a poco tempo fa, lo sono diventati già meno quando è stata la volta di Roberto e poco ha contato la sua passione per l’ambiente e i due anni trascorsi in Australia, uno dei quali investito per preparare la tesi. «Dopo la laurea in realtà ci ho messo abbastanza poco, due o tre mesi, per trovare un lavoro. Il problema è che si è sempre trattato di collaborazioni pagate al minimo». Ora che di anni ne sono trascorsi cinque, Roberto guadagna 1.350 euro circa netti al mese. È la condizione standard e diffusa. Di prendere casa, da solo a Roma, ovviamente non se ne parla. «Con i prezzi degli affitti non riuscirei proprio». Visto che per un monolocale si va in media dagli ottocento ai mille euro.
Nel 1970, quando sua madre Betty ha cominciato a lavorare, i laureati erano appena 883.188 su un totale di 54.136.551 milioni di italiani (sono i dati del Censimento Istat del 1971). Oggi che gli italiani sono circa 60.600.000 i laureati sono 3.480.535. Quando una pizza e una birra costavano ottocento lire la ventenne Betty aveva già un diploma da infermiera professionale e non aveva neanche avuto bisogno di cominciare il pellegrinaggio dei colloqui di lavoro. Il suo stipendio era di 90mila lire e per pagare l’affitto di un appartamento vero (niente condivisione con altri lavoratori) spendeva 38mila lire. Il suo primo lavoro è stato anche l’ultimo, infermiera cioè per quasi trent’anni. Una rassicurante stabilità non impoverita neanche dalla crisi petrolifera del 1973. «Per un giovane laureato – spiega Ignazio Visco, vice direttore generale della Banca d’Italia – i salari d’ingresso nel mercato del lavoro sono oggi pari in termini reali (depurati cioè dall’incremento del costo della vita, ndr) a quelli di 30 anni fa». Questo vuol dire che «i giovani che si affacciano sul mercato del lavoro sono quindi esclusi dai benefici della crescita del reddito occorsa negli ultimi decenni». E per di più per mettere insieme un solo stipendio in molti casi servono più lavori. Veronica che ha 30 e lavora a Brescia, ad esempio, riesce a guadagnare anche 1.500 euro al mese. Per farlo deve però insegnare storia dell’arte come supplente, dedicare qualche ora («è un piccolo corso», dice) all’accademica, poi al museo, e infine dipingere. Quest’ultimo sarebbe in teoria il suo vero lavoro, «solo che – spiega – per potermi impegnare a tempo pieno dovrei avere all’inizio un minimo di autonomia economica». Il risultato è per Veronica quasi una beffa: più part time per fare un full time e così tempo azzerato per investire in se stessa.

Eppure a fare confronti, Betty non ha avuta neanche una delle possibilità che l’appartenere a un mondo trasformato ha dato al figlio. A cominciare dall’offerta di corsi di laurea e master, per proseguire con gli orizzonti geografici sempre più dilatati. Solo gli studenti in Erasmus sono due milioni. Ma il programma voluto nel 1987 dall’allora Comunità europea è solo una delle possibilità. Ormai gli accordi tra università sono una costante, così spesso gli studenti utilizzano l’esperienza all’estero per svolgere corsi che altrimenti non avrebbero frequentato in Italia. Come ha fatto Giulia, 24 anni, dottoranda in criminologia all’università Cattolica di Milano che ha studiato in Belgio. «Certo – dice – la borsa di studio che avevo mi copriva appena l’affitto, tuttavia è stata un’opportunità irripetibile». Luca, 24 anni, ha quasi le valigie pronte per la Slovenia, ci passerà cinque mesi. Ha già vissuto per un anno a Londra e pensa che a laurea conclusa comincerà a setacciare le università straniere. «A me – spiega – andrebbe pure bene l’assegno di ricerca da mille euro, in cambio di un obiettivo da raggiungere. Quello che non potrei sopportare è il sacrificio a vuoto».

Persino la porta girevole della flessibilità va bene se in fondo si delinea la chimera della stabilità. «A cosa punto? – dice Roberto – naturalmente alla stabilizzazione contrattuale». Niente posto fisso che quello ormai è fuori dal linguaggio e dalla concettualizzazione. Solo un’idea di programmazione. Nella consapevolezza che il mondo lineare, fatto di poche scelte essenziali, conosciuto dai genitori, è archeologia. La priorità di Luca, Veronica, Giulia è semplicemente non far parte di quei 2.869.000 di persone che «dopo aver avuto una prima esperienza di lavoro per oltre tre mesi consecutivi» l’hanno interrotta e si trovano o disoccupati o a fare un altro lavoro. E soprattutto non vogliono attardarsi in un eterno presente. Un eterno presente in cui la transizione verso la vita adulta è costantemente rinviata. In parte ciò «è imputabile all’innalzamento dei livelli di scolarizzazione» come scrivono Nicola Negri e Marianna Filandri in Restare di ceto medio – Il passaggio alla vita adulta nella società che cambia (Edizioni Il Mulino), in parte al fatto, come ha registrato l’Istat, che «occorrono cinque anni perché la probabilità di passare da una prima occupazione temporanea a una stabile interessi la metà dei giovani entrati nel mercato del lavoro con un contratto a termine».

Con un rischio: «Nell’ultimo anno – spiega Andrea Ceccherini, presidente dell’Osservatorio dei Giovani Editori – ho avvertito una trasformazione profonda del clima tra i giovanissimi. Si è passati da una sostanziale astrazione rispetto alla politica e alle istituzioni pubbliche, a una crescente e irrefrenabile contrapposizione. I ragazzi pensano al futuro con timore, sono convinti che ieri era meglio di oggi e che domani sarà ancora peggio».

da www.ilsole24ore.com

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«C’è il pericolo che dalla disillusione si cada nel rancore», di Aldo Bonomi

Una società può smarrire la propria ombra, cioè la capacità di farsi carico di chi viene dopo? Direi di sì se si guardano i dati Istat sulla disoccupazione giovanile: tra i 15 e i 24 anni ormai uno su tre è disoccupato (28,9%, la media europea è 19,8%). Ma c’è un dato ancora più pesante: siamo primi in Europa per numero di giovani tra i 15 e i 30 anni che hanno gettato la spugna. Abbandonano gli studi e non lavorano in un Italia dove già nel 2005 il guadagno mensile netto di un laureato era 1.151 euro. Numeri che “bruciano” una generazione che nell’ultimo quindicennio ha cavalcato giustamente l’idea della formazione permanente e del “tutti professionisti” (anche con Partita Iva) come via più breve per inseguire il sogno di autonomia, senso e reddito.

Ho spesso raccontato nei miei microcosmi il fare microimpresa, manifatturiera o terziaria, l’ossimoro di essere capitalisti personali senza aspettare la chiamata della grande impresa o della Pubblica amministrazione. I dati Istat mostrano una discontinuità storica che scava nell’antropologia dei soggetti, nel loro rapporto profondo con il sistema sociale, con una idea di futuro. Rimango convinto che un importante rivolo per svuotare il lago della disoccupazione e depotenziare il malessere sociale che questa produce continui ad essere l’autoimprenditorialità a patto di tenere conto che non basta inneggiare al “tutti imprenditori” perché un intero, lungo, ciclo è finito e oggi siamo nell’epoca della selezione non della proliferazione dell’impresa. E questo vale non solo per quel lavoro autonomo di prima generazione, fatto di artigiani e micro-imprenditori che tra fine anni 70 e fine anni 90 ha incarnato l’epopea del capitalismo molecolare, dei distretti e delle filiere, come imprenditori o subfornitori; vale anche per un lavoro autonomo di seconda generazione, metropolitano e cognitivo, che sull’onda della new economy e della creatività ha incarnato quel mito della società della conoscenza che tanta parte ha giocato nell’indirizzare le scelte formative, professionali e di vita delle due ultime generazioni di giovani. Che hanno tentato la scalata al cielo pensando di poter facilmente sostituire al capannone e alle reti corte dei loro padri il Pc e la simultaneità del web e di Facebook.
Il salto del ciclo economico vale per tutti. E oggi i segnali di una disillusione di massa, anticamera del rancore di massa, ci sono tutti. In questi due anni di crisi li ho visti crescere su ambedue i lati in quella sorta di grande laboratorio a cielo aperto rappresentato dalla città infinita milanese dove l’intreccio tra l’artigiano brianzolo e il creativo milanese è all’ordine del giorno da almeno un trentennio. Qui tra i microimprenditori del mobile o della meccanica ad inizio 2010 quasi il 60 % degli intervistati ti dicevano che non investivano perché percepivano che tutto il sistema di regolazione economica e sociale che ne aveva accompagnato (e permesso) l’ascesa “non c’era più”, perché i mercati non erano più stabili “come una volta” e i più giovani erano in fuga dalla cultura del capannone. Ma anche nel mondo patinato del terziario milanese la falce della crisi ha mietuto vittime ponendo con la durezza dei processi reali il tema della proletarizzazione delle professioni (il 76 % dei giovani professionisti milanesi oggi pensa che la propria professione sia in crisi di prestigio sociale); unificando la condizione dei più giovani trasversalmente alla divisione tra vecchie e nuove professioni, giovani avvocati e art director, facendo crescere la futura bolla della formazione. Da un parte, nell’operosa Brianza, lo sforzo per produrre più operai e tecnici specializzati e il richiamo all’autoimprenditoria può avere successo solo se sta dentro scelte strategiche che affrontano il nodo di cosa produrre, come produrre e su quali mercati vendere le nostre merci. Attenzione dunque a non limitarsi a riproporre a chi oggi ha vent’anni solo un paradigma culturale delle virtù manuali dell’Italietta operosa e risparmiosa quasi che globalizzazione e terziarizzazione siano semplici parentesi. Perché il rischio è di moltiplicare conflitti figli di quella che chiamo “infelicità desiderante”, sentimento tipico dei giovani che vivono la contraddizione tra la voglia di star dentro all’ipermodernità con il mito dell’Essere che può tutto e una condizione sociale ed economica che allontana le concrete possibilità di esservi inclusi.

I numeri dell’Istat ci mettono in mezzo tra le rivolte dei giovani tunisini che vogliono senso e reddito e la locomotiva tedesca il cui mercato del lavoro continua a tirare. Il richiamo all’autoimprenditorialità funzionerà ancora solo se sta dentro la ricostruzione di una rete sociale oltre che economica che sostenga l’accesso a beni comuni che oggi appaiono sempre più imprescindibili per rimanere sul mercato: conoscenza, servizi, reti di comunicazione e welfare. Tutte cose che ci richiamano alla grande questione dei lavori, la loro rappresentanza e rappresentazione. Perché oggi, dentro le difficoltà della crisi, il campo della rappresentanza del capitalismo personale e del nuovo lavoro autonomo è divenuto un cantiere di cambiamenti. Per tutti, dagli oltre 2.600.000 commercianti e artigiani di Rete Imprese Italia alla galassia delle associazioni professionali del “nuovo terziario” fino al piccolo sindacato delle Partite Iva Acta e agli Ordini, si pone la questione se l’autoimprenditorialità sia davvero uno degli emissari che svuoterà il lago della disoccupazione potando i giovani a navigare nel mare del futuro.

da www.ilsole24ore.com

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«Economisti e ingegneri tra i più richiesti», di Cristina Casadei

«Si ricorda, dieci anni fa, quando c’è stata la bolla tecnologica? O quella della comunicazione?», chiede Marco Centra, ricercatore responsabile dell’area lavoro all’Isfol mentre cerca di spiegare le ragioni della difficoltà del rapporto tra i giovani e il lavoro. Come tutte le bolle anche queste sono state bucate dal corso del tempo, sgonfiando così l’occupazione che avevano creato. E lasciando molti laureati che avevano iniziato gli studi dieci anni fa, carichi di aspettative sul loro futuro professionale, ma senza grandi prospettive.

Dalla lettura storica del rapporto tra domanda e offerta di occupazione, così come è illustrata dai dati Unioncamere-Excelsior, emerge che al riparo dal mismatch ci sono solo gli economisti: è in economia la laurea più richiesta nel corso del decennio. Anzi, se nel 2001 servivano 15.499 laureati in questa materia, nel 2010 ne servivano 20.030. Non così per l’indirizzo informatico e delle tlc: nel 2001 le imprese chiedevano 12.122 di questi laureati, nel 2010 questi professionisti sono spariti dalla lista. Ci sono rimasti, in cima, ingegneri, medici e chimici, mentre sono iniziate a spuntare altre professioni, tra le più richieste. Come lo psicologo che nelle previsioni del 2001 era assente, mentre nel 2010 il mercato ne chiedeva 790. Per non dire degli urbanisti che con la trasformazione di molte città per i grandi eventi, in primis Roma e Milano, sono passati da 238 nel 2001 a 650 nel 2010. Oppure interpreti e traduttori che con la globalizzazione sono sempre più preziosi: nel 2001 ne servivano 700, nel 2010 quasi il doppio: 1.370.

Che ci sia un’esigenza di riqualificazione del lavoro in funzione del cambiamento delle necessità delle imprese è vero ma, come dice l’economista Emiliano Brancaccio, che insegna all’Università del Sannio, «il vero problema è che esiste un numero di posti vacanti per lavoratori qualificati nettamente inferiore al numero di giovani qualificati che oggi non lavorano. La questione della qualificazione diventa così secondaria». Leggendo la serie storica dei dati Excelsior Unioncamere emerge che se nel 2001 le assunzioni previste erano 713.558, nel 2010 sono diventate 551.950. Per i giovani ad aggravare il quadro, come spiega Marco Centra, c’è la crisi economica che ha accentuato una questione strutturale: «La prima reazione del mercato del lavoro alla crisi è stata il calo di assunzioni. Tenendo conto che i nuovi ingressi riguardano per oltre la metà i giovani, è chiaro che sono stati loro a risentire di più di questa fase difficile (si veda in alto il grafico Isfol che rielabora dati Istat)». Qualcosa però sta cambiando perché chi è giovane oggi, aggiunge Brancaccio, «sta prendendo coscienza del fatto che certi problemi si risolvono in due modi. Innanzitutto affrontando seriamente lo studio e il lavoro. E poi esprimendo giudizi severi che portino verso una politica economica adeguata».
Per fare ripartire il ciclo virtuoso delle assunzioni potrebbe essere utile maggiore flessibilità? Forse, ma per Mario Mezzanzanica, professore della Bicocca e direttore scientifico del Crisp, «oggi la flessibilità contrattuale è garantita e le regole pur modificabili e migliorabili ci sono. Semmai bisogna superare la barriera d’ingresso al mercato del lavoro che è rappresentata dall’esperienza. Gli stage, adesso, sono più che mai una grande opportunità. In Lombardia abbiamo riscontrato che nel giro di 3 anni la maggior parte degli stagisti vengono poi assunti».

Lo conferma anche Lucia Gunella, responsabile del settore orientamento e placement dell’Università di Bologna che dice: «Ogni anno abbiamo circa 17mila studenti che svolgono tirocini e il feedback dei ragazzi e delle aziende è positivo». In futuro potrebbe aiutare anche a colmare il gap tra istruzione e lavoro «che con la globalizzazione si è amplificato – dice il prorettore dell’ateneo Roberto Nicoletti –. L’università ha una velocità di cambiamento più lenta dell’industria. Se dopo tre anni cambiano delle linee di produzione, le imprese vorrebbero laureati operativi da subito. Ma noi per cambiare un corso di studi impieghiamo 5 anni. Certo è che possiamo, attraverso l’orientamento, promuovere un percorso di conoscenza delle facoltà e anche del lavoro».

da www.ilsole24ore.com