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"Le zone franche dove lo Stato non comanda", di Gianni Riotta

Provate ad immaginare lo Yankee Stadium di New York circondato da sparatorie, con pistolettate e feriti lungo le Avenues. Considerate lo stadio Stamford Bridge di Londra, casa del Chelsea, ostaggio di un avanzo di galera, imparentato con la mafia, detto Genny The Scum, che discute con i garbati bobbies, i poliziotti, e il capitano dei Blues da pari a pari. Completate il viaggio nell’Impossibile con l’Allianz Arena di Monaco, l’elegante struttura disegnata dagli architetti Herzog&deMeuron, assordata dall’esplodere di bombe carta ed ordigni così potenti da far piangere, terrorizzata, la bambina della Cancelliera tedesca: fuori la capitale bavarese preda della guerriglia urbana.

Spiace ammettere subito che nessuna delle situazioni descritte è lontanamente possibile nella realtà, in America, Gran Bretagna, Germania. Paesi che hanno profondi problemi sociali, ma in cui lo sport non può finire in mano a racket violenti perché mai lo Stato cederebbe all’anarchia spazi pubblici. Capire come invece noi italiani ci siamo ridotti così è stilare una diagnosi che ci porta subito lontani dal calcio-sport, 4-4-2, falso 9 centravanti, ripartenze di fascia, gioco che milioni di tifosi perbene adorano, «la cosa più importante tra le non importanti» nella definizione del mister Arrigo Sacchi. La Repubblica italiana ha progressivamente ceduto il controllo di territori nazionali, il potere, a minoranze faziose, organizzate, estremisti politici, ultras del calcio, criminalità organizzata, devianze e soggetti eversivi. Citare insieme questi usurpatori del diritto di controllo sociale non significa pensare che No Tav violenti, Commandos della Serie A, Clan camorristi, gang di quartieri, siano la stessa cosa, abbiamo gli stessi obiettivi o siano pericolosi alla pari, come i soliti faziosi insinuano online.

Malgrado i rapporti di Polizia, Carabinieri, gli studi di sociologia e le cronache dei reporter testimonino di larghe aree di convivenza tra i settori illegali – e il signor Gennaro De Tommaso, corpulento ultras detto Genny a’ carogna, figlio di un camorrista, condannato e bandito dagli stadi ne è prova vivente – le violenze pubbliche hanno motivi, strategie e radici diverse.

Quel che le unisce però, ed è il veleno che la Repubblica dovrebbe combattere, temere e neutralizzare, è il monopolio della violenza nei territori che presidiano, siano quartieri, valli, impianti sportivi, porti, traffici, commerci. Il cardine di una democrazia è la delega dell’uso della forza alla comunità e «the rule of law», la legge, in vigore sull’intero Paese, senza nessuna franchigia, zona franca, dove il diritto non si possa applicare, come capitava nei periodi bui del Medio Evo, nella Cina dei Signori della Guerra, nel Far West americano.

Davanti alle autorità, dal presidente del Consiglio tifoso della Fiorentina, alla seconda carica dello Stato, il presidente del Senato Grasso che festeggiava nel cuore la promozione del suo Palermo, i violenti, dentro e fuori lo stadio Olimpico, fischiando l’inno nazionale, fermando la partita, bloccando la Capitale, hanno provato che la Repubblica non è più, ovunque, sovrana. Questo è un pericolo così drammatico, vera emergenza nazionale, che ci si aspetterebbe dalla politica, e dalle istituzioni, uno scatto unito, per una volta, per dire «Basta!». Le forze dell’ordine hanno da tempo proposte, in parte di repressione in parte di bonifica sociale, per contrastare la rivolta ultras.

Bene ha fatto il premier Renzi a chiamare la signora Raciti, vedova di un funzionario dello Stato ucciso mentre faceva il suo dovere da un ultras, a Catania, che sconta pochi anni di pena mentre i suoi sodali lo elogiano dalle telecamere. Ma i leader politici per troppo tempo hanno offerto totali, o parziali, giustificazioni ai violenti, e oggi non hanno credibilità. Sentire online chi parla del doloroso caso del giovane Aldrovandi, per coprire i violenti, è sintomo di una comunità dispersa. Se la violenza è commessa da studenti autonomi, contadini anti Europa, tifosi arrabbiati, estremisti anti sindacato, abusivi di ogni risma, c’è sempre in parlamento un drappello di deputati pronti a dire «ben altri sono i problemi, la violenza va compresa».

No, va repressa. E poi vanno recise le eventuali ragioni di ingiustizia che l’hanno prodotta. Ma provare a blandire la piazza per una manciata di voti è grave. Spiace dunque che ieri, nel condannare il caso Olimpico con toni per una volta misurati, il leader del movimento di opposizione più forte, Beppe Grillo fondatore del M5S, non abbia saputo resistere all’insulto elettorale contro Renzi. Piccolezze che indeboliscono la reazione alla violenza e indeboliscono lo Stato. Grillo ha ormai un potere grande nella Repubblica: deve gestirlo con responsabilità, o finirà travolto come capita sempre agli Apprendisti Stregoni.

Chi ha vissuto gli Anni di piombo seguiti al 1969 sa che la violenza, una volta accesa la miccia, brucia senza quartiere. La crisi economica da cui l’Italia non sa uscire lascia milioni di giovani disoccupati a vita, senza speranze, valori, indicazioni. Nelle periferie, soprattutto al Sud, arruolarsi nella criminalità è spesso il solo cursus honorum. Qualche intellettuale blatera ancora di «decrescita felice», ma questo è il volto della decrescita, la trasformazione di ragazzi in gamba in plebei pronti ad arruolarsi per una mancia, generazione sfortunata relegata al ruolo di Lazzari senza arte e destino.

È questo che vogliamo per i nostri figli più deboli? Che andare in piazza con casco, spranghe, fumogeni, ordigni, pistole sia la loro università e Genny ’a carogna il leader di riferimento?

La stampa 05.05.14