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"Tradimenti, agguati e sfottò l’incubo dei franchi tiratori", di Filippo Ceccarelli

Così i patti possono crollare nel segreto dell’urna L GIORNO che i franchi tiratori fecero secco Forlani, sabato 16 maggio 1992, data che inaugura il crollo della Prima Repubblica, il senatore a vita Carlo Bo, esimio letterato, disse che a Montecitorio gli era sembrato di assistere alla scena dell’attacco ai forni nei
Promessi sposi. Non sembri eccessiva l’evocazione: “Se un romanziere fosse capace di descrivere i fatti di questi giorni — insisteva Bo — forse si uscirebbe dal vago e dall’inutile della nostra attuale letteratura”. Preannunciata da affettati richiami alla coscienza, combinazioni e contraffazioni algebriche e vibranti excusationes non petitae, l’ombra dei franchi tiratori è sempre stata una formidabile risorsa narrativa.
Ulteriore e significativa conferma se ne ebbe anche allora giacché Forlani, la vittima designata, trent’anni prima, nel 1962, era stato dalla parte degli oscuri sicari fanfaniani che cercarono di fare la pelle a Segni. Donde l’involuta, ma esatta definizione di Andreotti: “I franchi tiratori sono la mala pianta di cui ci si rallegra quando si manifesta in ausilio alle proprie tesi, e si demonizza negli altri casi”. Ora è tutto abbastanza cambiato, la politica post-ideologica non conosce la disciplina di partito, ogni parlamentare penetrato nel Palazzo con i benefici del Porcellum coltiva il proprio prezioso individualismo, ma anche nella stagione delle immagini e dei messaggi semplificati la malapianta è ben lungi dall’essere sradicata.
A funerea memoria e perenne monito degli “onorevoli-lupara”, come li designò Montanelli, nell’aula della Camera resta la cabina, detta anche “sarcofago” o “catafalco”, ove si compila la scheda prima di deporla nell’insalatiera. Risale anch’essa al 1992 e fu imposta dall’allora presidente dell’Assemblea, e di lì a qualche giorno presidente della Repubblica Scalfaro, dopo che in una votazione furono trovate 5 schede in più del dovuto, una specie di trucco precauzionale per annullare l’elezione, ove mai i cecchini non fossero stati sufficienti a fermare Forlani — ma poi toccò anche a Vassalli e poi ancora al povero Leo Valiani, di cui è difficile dimenticare l’espressione desolata, seduto su un divano con il suo bastone, mentre accusa i suoi anonimi pugnalatori di “vecchietticidio”.
Da sempre il gioco degli inganni ruota infatti attorno alle schede. La tattica dei predatori dell’urna ne prevede due: una scheda fasulla da esibire e un’altra vera da compilare di nascosto — nel 1964 i forzanovisti eseguivano tale incombenza alle “maioliche”, che sarebbe un modo per indicare il bagno — tenuta in tasca. Il gioco di prestigio consisteva nello scambiare le schede nel giro di pochi passi e pochi secondi. La tendina del catafalco rende l’operazione più agevole.
Ma esistono comunque sistemi di controllo, vere e proprie polizie e ronde d’aula che per lo più la Dc affidava a parlamentari siciliani maturati nella grande università per franchi tiratori di Palazzo dei Normanni. Così come un sistema di verifica e di intelligence ex postè affidato al riesame delle schede votate secondo criteri prestabiliti: “Forlani”, per dire, scritto in nero, in blu o in rosso, come pure “on Forlani”, “Arnaldo Forlani” oppure “Forlani Arnaldo”.
E non si scopre nulla, ma sono le tossicità del voto segreto. Storia antica, valga il fatto che se ne cominciò a parlare, tra il Sirtori e il Tommaseo, addirittura nella Repubblica Veneta alla metà dell’ottocento; e che già il governo Minghetti, tre anni prima della presa di Porta Pia, cadde per un recondito colpaccio sul macinato e le ferrovie; e anche Crispi ebbe in seguito suoi guai, come si deduce dalle veementi invettive contro la prima o forse era ormai la seconda generazione di franchi tiratori.
Cosa non si è fatto, comunque, in era repubblicana per uccidere un candidato al Quirinale! Vedi la triste sorte del conte Sforza impallinato dai dossettiani, di Merzagora fatto fuori dagli andreottiani, di Leone una prima volta bloccato dalla sinistra dc, di Fanfani che sempre ci provava, ma sempre un po’ tutti fecero quanto era in loro potere per silurarlo nel modo più efficace e strisciante, d’intesa con i deputati del Manifesto che sulla scheda scrivevano “Maledetto nanetto/ non sarai mai eletto”; e insomma perlustrando le pieghe della vasta e tumultuosa epopea del tradimento a volto coperto vale qui ricordare che un parroco veneziano durante la funzione ritenne di invocare Dio: “Liberaci dai franchi tiratori e così sia!”.
Per descrivere l’atmosfera del 1992, d’altra parte, oltre al richiamo manzoniano del senatore Bo, Giorgio Albertazzi si concesse di citare Machiavelli: “Io temo ciò che veggo e ciò che sento”. Là dove pure in quel caso fu proprio la graduale percezione degli agguati espressa al sommo grado del politichese — prima generica “dissidenza”, quindi “spinte dispersive”, infine “perduranti defezioni” — a restituire oscura luminosità e inesorabile potenza a un fenomeno antico e attuale, appassionante variabile del gioco politico, misterioso contropotere che scombina ambizioni e progetti per devastarli senza pietà in una saga sfiancante di votazioni a vuoto in un pieno di rancori, menzogne ed emozioni.
Nulla si crea, in realtà, e nulla si distrugge. Chiedere conferma a Renzi, a D’Alema, alle vecchie volpi della Dc residuale, e ai giovani turchi, le amazzoni, i leghisti, Scilipoti, compagni e compari. Bastassero la rete, lo streaming, le blindature e le idiosincrasie grilline a salvaguardare il Parlamento più fragile, difettato e frammentario della storia repubblicana dalla solita minaccia. E di nuovo viene da chiedersi in quali forme si preparano oggi a operare sfracelli non solo i franchi tiratori per vocazione e convenienza, ma anche i ribelli, gli scontenti, i mattoidi, gli onorevoli in vendita e le anime perse della Terza e sgangheratissima Repubblica.

La Repubblica 18.04.13

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