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2001-2010: i volti e le storie del decennio*

L’eredità del decennio sono le sfide aperte della democrazia, di Bill Emmott

I giornalisti spesso pensano che le notizie possano definirsi tali in termini di giorni o di minuti. I politici sembrano lungimiranti se pensano in termini di poche settimane, o visionari se fanno arrivare lo sguardo fino alle prossime elezioni. La maggior parte della gente comune ha ricordi che variano a seconda dell’argomento, più a lungo termine per la famiglia o per la carriera, più a breve per gli affari politici o economici o, soprattutto, per le notizie che riguardano altri. Gli storici, tuttavia, amano pensare in termini di decenni, perché 10 anni sembrano loro un tempo abbastanza lungo per fissare delle tendenze o cambiare rotta.

Così vale la pena chiedersi: secondo gli storici del futuro cosa potrebbe essere stato importante durante il primo decennio del XXI secolo? E il giudizio sul decennio potrebbe essere positivo, in termini di sviluppo umano o di progresso, o negativo? Non sono, in parte, domande corrette, perché gli storici futuri hanno un vantaggio decisivo su di noi: sanno che cosa è successo dopo. Ciò permette loro di vedere il significato più a lungo termine di un evento o di una tendenza che è più difficile da giudicare se vista da vicino, così come valutarne gli effetti buoni o cattivi. Questo vale in modo evidente per le scoperte scientifiche: la decifrazione del Genoma si rivelerà un evento epocale, aprendo la strada a grandi conquiste della medicina e a nuovi dilemmi nel campo della psicologia e dell’etica o è una falsa alba? Ma vale anche per l’economia (si pensi all’euro, nato nel ‘99) e per la geopolitica.

E’ opinione comune che le guerre in Iraq e in Afghanistan, oltre alla débacle finanziaria del 2007-09, saranno viste come segno del declino del prestigio americano e del suo potere, potere che nel 2000 sembrava senza rivali nel mondo. Era facile in quell’anno perdere il conto del numero di analisti che paragonavano l’America dell’ultimo periodo dell’era Clinton e del primo di Bush jr. all’impero romano. Bush aveva detto che il suo Paese avrebbe dovuto essere «umile ma forte» e pochi dubitavano che non sarebbe rimasto almeno forte. Ora, grazie ai 19 dirottatori addestrati da Al-Qaeda che l’11 settembre 2001 pilotarono aerei commerciali contro il World Trade Centre di New York, il Pentagono a Washington e (obiettivo fallito) in un campo della Pennsylvania, uccidendo 3 mila persone in un’azione terroristica senza precedenti, i dubbi sono diversi e l’analogia con l’impero romano si è spostata dall’egemonia all’indebolimento o addirittura al collasso.

Il potere si sta spostando verso l’Asia, come sappiamo. L’Iraq è stato un imbarazzante pasticcio, l’Afghanistan è diventato un pantano, la finanza americana è uno scherzo di cattivo gusto. L’Occidente ha sofferto la peggiore crisi economica dal 1945. Chi guarda al breve periodo potrebbe aggiungere Wikileaks alle prove del declino americano: il fallimento nel mantenere riservate le relazioni diplomatiche è un enorme, nuovo imbarazzo. Eppure, mi chiedo se gli storici sono d’accordo. L’indizio si potrebbe trovare anche lì, nei dispacci. Ciò che hanno mostrato, finora, è una nazione che ha diplomatici franchi e non doppiogiochisti e che sembrano preoccuparsi dei valori universali della democrazia e dei diritti umani.

Se questa è una buona guida per scoprire le qualità di fondo d’America, in futuro le vicende abnormi della prigione di Abu Ghraib in Iraq e di Guantanamo potrebbero sembrare anomalie come il massacro degli abitanti di My Lai in Vietnam nel 1968. Non dimentichiamo che nel 1970, in seguito alla guerra del Vietnam, allo shock petrolifero e poi alla rivoluzione iraniana, l’America sembrava in declino e questo anche prima che un altro rivale asiatico, il Giappone, sembrasse avere il sopravvento. Il possibile significato del primo decennio del XXI secolo potrebbe, come per il 1970, essere un riassetto degli affari del mondo e non un cambio di leadership.

L’ultimo decennio ha visto l’emergere, salutato con favore, del Gruppo dei 20, come sostituto ampliato del gruppo dei sette (poi otto) nato nel 1970, in un momento in cui una leadership più collettiva sembrava auspicabile. Ma se ora l’economia americana rivive, se mantiene la sua leadership tecnologica, potrebbe restare la guida effettiva del G20, come è ora. Avrà anche un ruolo di indirizzo, se conserva o riacquista la leadership morale – e questo significa soprattutto diritti umani e democrazia. Perché se la democrazia continua a diffondersi, l’Occidente in generale, ma l’America in particolare, possono ottenere credito dagli storici – in parte grazie agli elementi di prova che leggeranno grazie a Wikileaks.

Questo è un grande se. Freedom House, il think tank che monitora lo stato della democrazia e della libertà di stampa nel mondo, ha riportato un preoccupante rallentamento del progresso della democrazia, che in alcuni casi è diventata regressione. Gli storici, però, terranno conto anche degli straordinari progressi registrati negli Anni 90 grazie alla fine della Guerra Fredda e alla caduta dell’Urss e potrebbero non essere sorpresi dal fatto che la democrazia non sia stata in grado di uguagliare la rapida diffusione raggiunta durante i 10 anni precedenti. Anche così, la delusione della rivoluzione «arancione» in Ucraina del 2004, i progressi irregolari in Africa e le minacce alla libertà di stampa nella stessa Ue, ora in Ungheria e da diversi anni in Italia, non possono essere ignorate.

Tuttavia, nel 2009, secondo Freedom House, oltre il 45% della popolazione mondiale viveva in Paesi «liberi» , mentre nel 2000 la percentuale era del 40%. Il punto cruciale è che il Paese più popoloso, la Cina, resta una dittatura. Wikileaks può anche, però, darci un altro indizio di una tendenza significativa del decennio passato, questa volta attraverso il sesso del segretario di Stato americano. Gli storici sottolineeranno che non solo il 2008 ha portato il primo Presidente nero, ma anche che tre degli ultimi quattro segretari di Stato sono state donne (Hillary Clinton, Condoleezza Rice e Madeleine Albright). Questo è, in termini storici, il culmine di una tendenza che è iniziata con l’allargamento dell’istruzione e con nuovi atteggiamenti sociali negli Anni 60 e 70.

In aggiunta a questi tre leader americani al femminile dovremmo contare un ministro delle finanze francese donna, una donna cancelliere tedesco e tre donne a capo delle principali associazioni industriali in Francia, Gran Bretagna e Italia. Le donne in posizioni di leadership restano eccezioni e non la regola. Ma durante questo decennio le eccezioni si sono diffuse. E’ anche il decennio in cui le donne sono diventate più della metà della forza lavoro americana e in cui hanno occupato 6 degli 8 milioni di nuovi posti di lavoro creati nell’Ue nel decennio 2000-2009 e sono diventate maggioranza tra gli studenti universitari, in Europa e in America. Il cambiamento sociale si insinua senza grandi eventi che restino nei nostri ricordi.

Così questo è stato anche il decennio in cui il matrimonio gay è diventato un argomento di dibattito mainstream ed è apparso quasi irrilevante che il ministro degli Esteri tedesco sia omosessuale. Soprattutto, però, è stato un decennio che sarà visto come degno di nota per il modo in cui la globalizzazione si è trasformata da materia di scontri a Seattle e a Genova in un modo per rendere il mondo più equo. Nel 2005, secondo la Banca Mondiale, vi erano 1,4 miliardi di persone in povertà assoluta, mentre ce n’erano 1,7 miliardi nel 2000.

Gran parte del motivo è la crescita economica in Cina, India e altri Paesi emergenti, che ha ridotto la povertà, malgrado la crescita della popolazione mondiale. Con la popolazione mondiale che ha superato i sei miliardi e che arriverà probabilmente a nove, l’attenzione è rivolta verso la minaccia di malattie e conflitti. Ma, forse, la cosa più notevole in un decennio in cui è stato dichiarato uno nuovo Stato dotato di armi nucleari (Corea del Nord), i due ultimi acquisti del settore sono arrivati sull’orlo della guerra (India e Pakistan nel 2002) e un altro (Iran) si avvicina al tale status, è che tanto i conflitti come le malattie siano regrediti piuttosto che espandersi.

Il progresso scientifico continua, ma è anche probabile che acceleri, via via che sempre più persone in Cina e in India emergono grazie a una migliore istruzione. Lo stesso potrebbe, eventualmente, valere per la democrazia. Ecco una previsione imprudente: che l’educazione e la ricchezza significano che entro il 2020 anche la Cina avrà fatto passi in avanti verso la democrazia o l’avrà raggiunta. Questo sarebbe davvero un trionfo occidentale.

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La fragile Europa si affida all’Est, di Enzo Bettiza

Anche per l’Unione Europea sta per finire un periodo molto più ampio del solo anno 2010. Sta per finire il primo decennio del XXI secolo dominato, nell’ottica europea, da un alternarsi di eventi pieni di promesse eccezionali e gravidi al tempo stesso di imprevedibili chiaroscuri.

Citerò i più salienti. Primo fra tutti il decollo dell’euro, una moneta comune al servizio di diciassette Stati sovrani (Estonia inclusa dal primo gennaio), qualcosa che non s’era mai visto nella storia dell’economia. Poi, i parametri di stabilità e disciplina fissati dal Trattato di Maastricht in materia di debito e deficit, aggirati e spesso scientemente violati. Infine, la valanga quasi spontanea dell’allargamento, che ha gonfiato l’Europa a ventisette soci con l’arrivo di nuovi Stati affluiti dalla carcassa coloniale del Comecon o, come la solitaria Slovenia, dalla dissoluzione dell’ex Jugoslavia.

Ma con l’allargamento verso l’Est, che ha reso paradossalmente più lontana l’integrazione politica di un’entità con 495 milioni di abitanti, cominciavano a profilarsi i punti di debolezza dell’architettura comunitaria. La moneta unica non sorretta né protetta da uno Stato unico, ma regolamentata da un banca centrale, doveva rivelarsi più vulnerabile del previsto; le regole contabili del contratto di Maastricht, simulacro a suo modo venale di un progetto di Costituzione mai approvato, si rivelavano presto vulnerabili anch’esse. La crisi del 2008 metteva a nudo la fragilità dell’intera costruzione. La resistenza dell’euro, indebolita fra l’altro dai «niet» nazionalisti della cancelliera Merkel, s’è mostrata traballante nell’implosione di disastri culminati nei crolli finanziari della Grecia e dell’Irlanda, negli sfaldamenti del Portogallo e della Spagna, e da ultimo aggravati da violentissime proteste di piazza ad Atene, Dublino, Parigi, Londra, Roma. Il decennio, che aveva tenuto a battesimo un’Europa frettolosamente ingrandita, che aveva visto i tre quarti di essa schierati dietro la Maginot dell’euro, ci appare in queste ore avviato a un esito difficile o quantomeno assai problematico.

Avremo nel 2011 soltanto l’Europa dell’austerità e dei tagli alla spesa pubblica? L’Europa dei giovani precari e dei pensionati rassegnati al peggio? L’Europa irreligiosa, multiculturale, a scartamento demografico ridotto, minacciata da invasioni disperate e insidiata dalla coesione mistica delle comunità islamiche? In termini più apocalittici, un’Europa in cui il capitalismo liberale morirà di capitalismo così come nell’89 il comunismo morì di comunismo? Una scheggia di coccio occidentale, staccata e non difesa dall’America in difficoltà, tra vecchi vasi di ferro come Russia e Cina, o nuovi come India e Brasile? Riuscirà a reggere più a lungo, ancorché non in eterno, la potente locomotiva tedesca con al seguito un solo vagone francese e quello britannico in deposito?

Eppure, nonostante l’obbligo di qualche esagerazione cassandresca, i segnali di una possibile e insolita ripresa non mancano. Stranamente arrivano dalla metà postcomunista del Vecchio Continente, ritenuta, fino all’altroieri, la più derelitta, la più lenta, la più svantaggiata.

Per tutto l’arco dell’anno venturo dovremo tener conto o, meglio ancora, fare i conti con un primo semestre di presidenza comunitaria affidata all’Ungheria e un secondo semestre presieduto dalla Polonia. Sarà, per dirla in chiaro, l’anno dell’Est europeo. Basta dare uno sguardo alla faccia da bulldog del primo ministro ungherese, Viktor Orban, per capire che non scherzerà. L’Economist lo sospetta di essere andato a scuola da Putin. Personaggio certamente aspro e autoritario, legato a doppio filo al capo dello Stato, sostenuto da una cospicua maggioranza parlamentare di centrodestra, Orban sta comunque riparando, con interventi spesso eccessivi, i guasti di scialo e di corruttela inflitti al Paese dal precedente governo socialista.

Più attraente si annuncia la successiva gestione polacca. Evitato il rischio, dopo la tragedia aerea di Katyn, di una prolungata fase xenofoba e gemellocratica dei fratelli Kaczynski, il governo liberale di Varsavia, grazie alle presidenziali vinte a luglio dal filoeuropeo Komorowski, ha assicurato alla Polonia una salute finanziaria e sociale che è seconda soltanto a quella della Germania. La crescita lineare, ininterrotta, ne fa oggi uno dei Paesi più stabili dell’Ue in crisi.

Ma i rilanci della seconda Europa non si fermano qui. La Slovenia, sempre prima della classe, non conosce per ora disagi con l’euro. La Slovacchia, membro dell’eurozona dal 2009, non è più «il buco nero nel centro d’Europa» come usava dire l’ex segretario di Stato d’origine boema Madeleine Albright; oggi è un affidabile partner europeo che accetta e collabora al fondo comune di 440 miliardi destinati dall’eurozona ai più inguaiati Paesi europei. Si muovono anche i baltici. L’Estonia, che subì le umiliazioni numismatiche del rublo zarista e comunista, nonché del marco imperiale e nazista, sta per abbandonare la sua tradizionale corona e per adottare con fiducia l’euro a partire dal 1° gennaio. Per quel piccolo Stato postsovietico di un milione e 300 omila abitanti, povero, periferico, frugale, in declino di natalità, l’euro è qualcosa di più d’un semplice valore monetario: è, per gli estoni, un simbolo di sicurezza che li allontana dalla Russia che non amano e li avvicina all’Europa in cui credono fermamente. Intanto la vicina Lettonia sta uscendo adagio dalle crisi bancarie che minacciavano di soffocarla e distruggerla. Dal Baltico al Danubio, nessuna delle nazioni postcomuniste, nemmeno la disastratissima Romania, è stata dichiarata «defaulted» dalle autorità monetarie internazionali.

Sappiamo che le astuzie della storia sono intersecate e infinite. Sarà forse l’Est a dare una mano all’Ovest dell’Unione Europea, dove la sola Germania corre, mentre l’Italia resiste, la Francia s’arrampica, la Spagna boccheggia, la Gran Bretagna affila il rasoio dei tagli? Ormai s’è compreso che senza armonizzazione l’Europa rischia la paralisi, che senza una politica fiscale comune non ci sarà futuro per la moneta unica, che senza un fondo europeo permanente non ci sarà salvezza né allegria per i naufraghi. Il più felice dei paradossi potrebbe essere di vedere realizzata almeno una parte di tutto questo durante le presidenze dell’Ungheria e, specialmente, della Polonia al vertice istituzionale dell’Ue.

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I pesci di Nemo e la rabbia di Fahrenheit, di Fulvia Caprara

Le spalle di Clint Eastwood nella corsia d’ospedale dove ha appena dato la dolce morte alla ragazza che ha allenato come una figlia. Il ghetto di Varsavia murato dai nazisti nella memoria del pianista di Polanski. La partita di calcio tra ragazzi irlandesi, prima della guerra civile, nell’epopea di Ken Loach. La famiglia in auto che intona «Insieme a te non ci sto più» nella «Stanza del figlio» di Nanni Moretti. Le coreografie marine di Nemo e dei suoi amici pesci. La sensualità struggente degli amori raccontati da Wong-kar-wai, erotismo alla massima potenza senza mostrare un centimetro di pelle nuda. La voce di Caetano Veloso che cura i dolori del mondo («Cucuruccucù Paloma») in «Parla con lei» di Pedro Almodóvar.

Gli arti di plastica sventolati dai disperati della guerra nell’Afghanistan di Makhmalbaf. La katana di Uma Thurman, sposa vendicatrice di «Kill Bill». Le Vele di Scampia inquadrate dall’alto in «Gomorra» di Garrone. Il ritratto allarmante d’alta borghesia impunita in «Match Point» di Woody Allen. I primi 10 anni del secondo millennio sono densi di immagini, parlano di un cinema che, per sopravvivere, deve allontanarsi il più possibile dalla piattezza e dalla ripetitività delle altre forme visive, tv, Internet, telefonia mobile. Per questo la qualità artistica è d’obbligo. Tallonati dalla realtà, sempre più invadente, sempre più rappresentata, gli autori sfiorano vette altissime, devono mostrare che la macchina da presa fa ancora la differenza, che il documentario, vero fenomeno delle ultime stagioni, a partire da «Fahrenheit 9/11» di Michael Moore, non è la lingua migliore per parlare al pubblico.

Per alcuni fra i grandi maestri la sfida si rivela particolarmente stimolante. Clint Eastwood segna gli ultimi 10 anni con una galleria di capolavori, una specie di corsa a fare sempre meglio, da «Mystic river», a «Gran Torino», all’ultimo «Hereafter». Woody Allen rivive, a partire da «Match Point», una stagione felice che lo riporta alla meravigliosa, intelligente leggerezza dei tempi di «Manhattan». Ken Loach mette tra parentesi la vena militante e si lascia andare a racconti che parlano prima di uomini e poi di idee. Roman Polanski fa per la prima volta i conti con la sua infanzia di ebreo perseguitato. Nanni Moretti chiude con l’alter-ego Michele Apicella e affronta in prima linea argomenti spinosi come l’elaborazione del lutto di chi è ateo e (con «Il caimano») la situazione dell’Italia contemporanea. Martin Scorsese torna, con «The Departed», all’incisiva passione dei tempi di «Mean Street».

Poi c’è tutto il resto. Che è moltissimo. Dall’esplosione del 3D, con gli uomini blu di «Avatar», ai cartoni animati che parlano agli adulti, pur essendo perfetti per i bambini, (basta pensare a «Wall- E» e ai vari «Shreck»), alla mania delle saghe fantastiche, un cinema in capitoli che accompagna i fruitori lungo il percorso della crescita, dall’infanzia all’adolescenza. Due per tutti, «Harry Potter», iniziato nel 2001, e il ciclo del «Signore degli anelli». E poi la consacrazione delle cinematografie d’Oriente, prima appannaggio di cinefili, ora note alle platee grazie alla bellezza di opere come «La tigre e il dragone».

E la vittoria, ancora molto ai Festival e un po’ meno al botteghino, dei film che raccontano i conflitti rifiutando confezioni patinate e belle facce di attori famosi, per andare al cuore del problema nel modo più duro, come in «Lebanon» di Samuel Maoz e in «The hurtlocker» di Katherine Bigelow. Più forti di un pugno nello stomaco, e anche delle lacrime, versate dai fan davanti alle ultime prove dell’astro nascente Heath Ledger («Il cavaliere oscuro» e «Parnassus l’uomo che voleva ingannare il diavolo»), morto precocemente e quindi rimasto giovane per sempre, come James Dean e Marilyn Monroe. Per fortuna c’è il cinema, che allunga la vita.

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*da www.lastampa.it/focus