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«All'asilo nido si gioca con un futuro incerto» di Cristiano Gori

Gli asili nido italiani stanno per cominciare una nuova, inattesa, stagione. La realtà dei servizi socio-educativi rivolti ai bambini sotto i tre anni si appresta, infatti, a trasformarsi. Da oltre vent’anni gli interventi pubblici sono finalizzati a incrementarne l’offerta ed elevarne la qualità e ampi passi in avanti sono stati effettivamente compiuti.
Per rispondere alle esigenze delle famiglie, però, il sistema dovrebbe crescere ancora, ma ciò non sarà possibile. Nel prossimo futuro gli obiettivi potrebbero cambiare: dallo sviluppo alla difesa dell’esistente.

Nell’ultimo decennio l’offerta è stata ampliata senza porre le basi per il suo mantenimento nel tempo. Tra il 2000 e il 2009, i posti nei nidi a finanziamento pubblico sono cresciuti di oltre il 60% (da 110mila a 180mila). L’estensione della ricettività non è stata accompagnata, però, dall’introduzione di modalità di finanziamento adeguate a sostenere i costi della gestione ordinaria. Detto altrimenti, lo sforzo teso ad aprire nuovi servizi è stato grande mentre minore è risultato quello finalizzato a costruire le condizioni per mantenerli nel tempo.
L’eredità del decennio s’intreccia con le vicende più recenti. Le scelte di finanza pubblica degli ultimi anni – in particolare le manovre estive del 2008 e del 2010 – si sono rivelate particolarmente penalizzanti per i comuni, cioè i principali finanziatori degli asili. Le decisioni prese dallo stato nei loro confronti presentano, infatti, alcune peculiarità, che le differenziano dagli altri interventi compiuti durante le crisi economica.

Da un lato tali decisioni non paiono interamente motivabili con essa perché in parte assunte prima della sua esplosione, dall’altro le municipalità sono state colpite più degli altri livelli di governo (stato e regioni).
Per finire, con il 2011 scompare il «Piano straordinario per lo sviluppo dei servizi socio-educativi alla prima infanzia» (noto come «Piano nidi»), introdotto nel 2007 dal precedente governo.
Anche se gli stanziamenti erano stati sinora modesti, il piano rivestiva notevole importanza perché la sua introduzione aveva significato riconoscere la necessità di un sostegno dello stato ai comuni nel finanziamento dei nidi e aprire la strada a un percorso che avrebbe dovuto portare l’Italia al pari degli altri paesi europei.

I problemi in arrivo
Nel nuovo scenario, il sistema italiano dei servizi alla prima infanzia dovrà affrontare numerose criticità, che – con la variabilità dovuta ai differenti contesti locali – toccheranno l’intero paese. Tre saranno le principali, analizzate in una ricerca svolta con Valentina Ghetti e Katja Avanzini presso l’Istituto per la ricerca sociale (Irs).
Innanzitutto, sarà impossibile incrementare ulteriormente i posti pubblici e – in alcune realtà – si rischia di vederne la riduzione. Ciò è l’esito della somma tra le difficoltà dovute alla crescita senza basi dell’ultimo decennio e quelle prodotte dalle recenti decisioni del governo sui finanziamenti. Oggi, la ricettività complessiva del sistema riguarda circa il 25% dei bambini entro i tre anni mentre le famiglie che vorrebbero fruirne sono il 42 per cento.
Inoltre, c’è il pericolo di un abbassamento della qualità. La minore disponibilità di risorse potrebbe tradursi, nei territori, in azioni finalizzate al risparmio, quali l’incremento del numero di bambini per educatore, la minore qualificazione del personale e la riduzione dei suoi momenti di aggiornamento e supervisione. Si tende spesso a sottovalutare il valore della qualità mentre le ricerche dimostrano che riveste un ruolo centrale nel determinare gli effetti benefici dei nidi sullo sviluppo cognitivo e comportamentale dei bambini (si veda il recente studio di Del Boca e Pasqua per la Fondazione Agnelli, scaricabile da www.fga.it).
Infine, sorgeranno difficoltà per la classe media. È probabile che l’offerta di servizi a finanziamento privato continui ad aumentare e quella pubblica no. La domanda di posti rimarrà ben superiore all’offerta nel pubblico, che – per sua natura – quando non può soddisfare tutte le richieste assegna priorità alle situazioni di maggiore difficoltà economica e/o sociale. I servizi privati, dal canto loro, sono costosi e la diminuzione del reddito dovuta alla crisi ha reso difficoltoso accedervi a un numero crescente di famiglie. Si rischia così un quadro composto da servizi pubblici rivolti alle fasce più fragili, servizi privati per i più abbienti e, nel mezzo, un insieme sempre più esteso di famiglie non abbastanza povere da accedere al pubblico e non sufficientemente benestanti da pagarsi il privato.

Perché siamo in questa situazione?
Le risposte sbagliate
Se si vuole discutere come affrontare il nuovo scenario, bisogna metterne a fuoco le cause, iniziando da alcune argomentazioni, dotate di un certo richiamo, che non sembrano condivisibili.
«I nidi costano troppo al bilancio pubblico». La spesa pubblica per gli asili nido è assai limitata, pari allo 0,15% del Pil rispetto, ad esempio, al 26,1% complessivamente dedicato al welfare. Si potrebbero rafforzare i servizi alla prima infanzia con un impatto marginale sul bilancio pubblico, producendo un significativo ritorno di consenso per il decisore responsabile.
«I nidi non servono». Si tratta di un’opinione diffusa più di quanto si pensi nell’elite politica nazionale e in vari circoli intellettuali. Invece, è scientificamente dimostrato che la presenza di nidi aiuta l’occupazione femminile. È pure dimostrato che la loro frequenza produce effetti positivi sullo sviluppo delle capacità di apprendimento e di relazione del bambino, effetti maggiori per chi proviene da famiglie svantaggiate e meno istruite.
«In Europa, i governi di destra abitualmente non promuovono i servizi alla prima infanzia». Ciò accadeva 20 anni fa, quando la destra riteneva che il bambino piccolo dovesse stare in famiglia (e la mamma non lavorare) e la sinistra che dovesse frequentare l’asilo. Da tempo, invece, negli altri paesi europei – come Germania e Gran Bretagna – i nidi sono considerati da tutti gli schieramenti un’infrastruttura sociale necessaria. In Italia, peraltro, gli sforzi della sinistra a favore dei nidi, per quanto superiori a quelli dei rivali, sono sempre stati ridotti.

Perché siamo in questa situazione? Le risposte giuste
Le cause principali risiedono nelle peculiarità del processo decisionale e del dibattito pubblico.
«Manca un forte gruppo di pressione a favore degli asili nido». In Italia i governi hanno abitualmente una ridotta capacità di prendere decisioni in modo autonomo e gruppi di pressione e lobbies – nell’industria come nel sociale – ne influenzano molto le scelte. A livello nazionale, nel welfare i gruppi di pressione realmente incisivi sono solo l’universo sindacale che si batte per chi il lavoro l’ha o l’ha avuto (occupati e pensionati) in forma stabile e protetta, e l’insieme di personalità e associazioni – il cui punto di riferimento è il Vaticano – impegnate sui temi cosiddetti “eticamente sensibili” (procreazione, configurazione giuridica della famiglia, stati vegetativi).
I soggetti, o gli interventi, che non possono contare su incisivi gruppi di pressione sono tradizionalmente sfavoriti dalle scelte della politica. È il caso di settori come la povertà o i servizi alla prima infanzia, nei quali non esiste una forte lobby di riferimento. Un’organizzazione con profilo nazionale che svolge azione di pressione per gli asili è il «Gruppo nazionale nidi infanzia» (www.grupponidiinfanzia.it), nato nel 1980. Si tratta di una rete di persone con una ridotta struttura organizzativa, il cui encomiabile sforzo non produce un impatto paragonabile a quello dei protagonisti già ricordati.
«Una coltre di fumo offusca la realtà». In Italia, la discussione pubblica sui nidi viene abitualmente affrontata nel dibattito su famiglia e ruolo della donna. Un dibattito peculiare – ad esempio, i benefici dell’asilo per il suo vero utente, il bambino, non sono mai considerati – e dai tratti ricorrenti.
I toni sono sovente concitati e i ragionamenti astratti, si discute il generico modello di società che si desidera e si trascurano gli interventi effettivamente realizzati; dunque, aspri confronti in merito all’utilità dei nidi per la società italiana e scarso interesse a capire, per esempio, se l’attuazione del piano nidi sia effettivamente servita alle famiglie in carne ed ossa. Manifestazioni recenti ne sono la Conferenza nazionale della famiglia organizzata dal governo in novembre e l’esteso confronto intorno al volume «L’Italia fatta in casa», di Alberto Alesina e Andrea Ichino (Mondadori, 2009).
Non stupisce, pertanto, che il nostro paese non abbia compiuto il passaggio realizzato nel resto d’Europa, cioè iniziare a considerare i servizi alla prima infanzia “semplicemente” un’infrastruttura necessaria e meritevole di sostegno bipartisan. In un simile dibattito, tra l’altro, si riduce molto lo spazio per la diffusione di alcune informazioni fattuali di base, quali i benefici sociali che gli asili producono, l’esigua spesa pubblica che comportano, e il fatto che nessuno intende “obbligare” le famiglie a utilizzarli bensì si vuole esclusivamente assicurare la possibilità di farlo a chi lo desidera.

Dalla battaglia ideologica all’infrastruttura sociale
I servizi alla prima infanzia richiedono al bilancio pubblico uno sforzo marginale e producono effetti positivi su aspetti decisivi per il futuro dell’Italia: la capacità di apprendimento delle nuove generazioni, l’occupazione femminile, le opportunità per chi proviene da contesti svantaggiati. Negli altri paesi europei il loro rafforzamento costituisce un obiettivo condiviso dai diversi schieramenti politici, di cui il governo centrale si è assunto la responsabilità. Da noi, se nulla cambierà, l’obiettivo dei prossimi anni sarà evitare di indietreggiare rispetto a oggi.
Esiste anche un’altra possibilità. Il 2011 potrebbe vedere la battaglia ideologica sulla famiglia prendersi un meritato riposo e gli sforzi convergere verso il concreto rafforzamento di un’utile infrastruttura sociale, cioè i nidi.
Si potrebbe partire dall’analisi dei quattro anni di piano nazionale, oggetto di approfondito monitoraggio da parte dell’amministrazione statale, mettendo in luce ciò che ha funzionato ed esaminando gli errori commessi così da non ripeterli. Si tratterebbe di valorizzare l’esperienza compiuta per aprire un confronto operativo su come procedere e giungere poi alla progettazione di un migliore intervento statale a supporto dei soggetti direttamente impegnati, a livello territoriale, nel sistema dei servizi.

da www.ilsole24ore.com