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"150 candeline per ricordare che lo stato siamo noi", di Michele Ainis

Se 150 anni vi sembran pochi, forse non avete tutti i torti. Se l’unità nazionale è ancora una creatura acerba, nonostante abbia un secolo e mezzo di vita sul groppone, dev’esserci pure una ragione. Intanto si moltiplicano gli effetti di questa condizione, ciascuno può stilarne un inventario. La reazione scomposta del ministro Bossi alle parole pronunciate dal presidente Napolitano sulla necessità di rispettare il tricolore. Il caso Battisti , con la sua coda di reazioni goffe e tardive da parte del governo, mentre i partiti inscenavano proteste davanti a pochi passanti infreddoliti (a Firenze cinque in tutto), e badando bene a non confondere le truppe.
Insomma uniti sì, ma senza esagerare. La commistione fra pubblico e privato, riassunta dalla doppia residenza da cui governa Berlusconi: in quella pubblica (palazzo Chigi) incontra gli ospiti stranieri, in quella privata (palazzo Grazioli) riceve i suoi ministri, mentre ai sindaci tocca viaggiare fino ad Arcore, com’è successo a Renzi. La sfiducia nelle istituzioni del paese da parte delle stesse istituzioni: l’ultimo episodio si deve al ministro Bossi, che ha trovato un arredo di microspie sotto i tappeti, e tuttavia non ha sporto denuncia perché si sa, non serve a nulla.

Ma almeno in questo il sentimento del popolo votato riflette quello del popolo votante. Un anno fa l’Eurispes stimava al 39% il grado di fiducia che gli italiani accordano alla Repubblica italiana. Basso, ma pur sempre un po’ di più rispetto all’anno prima. Invece nel corso del 2010 l’ago del sismografo è precipitato sottoterra. A giugno la Fondazione NordEst ha registrato un calo di fiducia degli imprenditori su tutte le grandi istituzioni, dal governo (23 punti in meno) alle regioni (quelle meridionali vengono bocciate da 3 persone su 4). A settembre la Confesercenti ci ha raccontato che peggiora anche il tasso di gradimento dell’opposizione (un misero 11%), dei sindacati (15%), delle banche (9%). A novembre l’Indice di fiducia dei lavoratori dipendenti sulle istituzioni nazionali e sovranazionali si è fermato al 23%. Senza contare le accuse solitarie, come quella del presidente dell’Associazione caduti di Piazza della Loggia, che ha dichiarato tutto il suo disappunto nei riguardi dello stato, dopo l’ennesimo processo per strage concluso con un’assoluzione.

Eccolo infatti il solo afflato unitario di cui siamo capaci : un sentimento di ripulsa, una scomunica corale verso tutto ciò che è pubblico, di tutti. Qui davvero non c’è troppa differenza fra i milanesi sondati dall’Istituto Piepoli, che nel 2011 punteranno sulla famiglia per difendersi dalle angherie di stato; i napoletani intervistati dal Mattino, che dopo mesi di monnezza nelle strade pensano che il sindaco sia una figura inutile, una poltrona da abolire; o magari il 71% di sanniti che diffida dei controlli sulla sicurezza alimentare, come attesta un’altra indagine appena divulgata.

Hanno (abbiamo) tutti torto? Può darsi, anche se Transparency International ha misurato un milione d’italiani coinvolti in fatti di corruzione, per ottenere permessi o per le utilities, per prestazioni sanitarie o giudiziarie, per ogni servizio erogato dallo Stato. Naturale che poi 4 italiani su 5 ritengano corrotto il Parlamento, non meno che la stampa, la tv, le imprese.

C’è allora una lezione che dovremmo rammentare , nell’anno del nostro compleanno collettivo. Lo Stato è una finzione del diritto, un’entità astratta senza gambe, né muscoli, né denti per sorridere. Eppure questa finzione plasma l’identità di un popolo, o meglio la rende possibile di fatto, perché trasforma il popolo in un’istituzione. Siamo noi, lo Stato. Siamo noi, le istituzioni che bruceremmo volentieri in un falò. Sicché c’è del paradossale nella malattia che ci contagia, nel malanimo verso lo Stato, e dunque verso l’unità degli italiani. Perché altro è denunciare un’ingiustizia o un disservizio, altro è al limite la rabbia; altro è la sfiducia, il disinteresse, il divorzio fra popolo e Palazzo.

Può aiutarci una norma scritta sessant’anni addietro , per ritrovare il filo di quest’unità perduta? È una norma sconosciuta ai più: l’articolo 54 della Costituzione. In primo luogo pone ai cittadini «il dovere di essere fedeli alla Repubblica»; ma se tua moglie, ormai, non la guardi più neppure in faccia, difficilmente le sarai fedele. In secondo luogo reclama «disciplina ed onore» nell’esercizio delle funzioni pubbliche, dunque nel mestiere cui si dedicano i nostri governanti; i quali tuttavia, negli ultimi anni, devono essersi distratti, oppure non hanno tempo da sprecare in codici e pandette. E invece no, troviamolo un po’ tutti questo tempo. Anche se 150 anni ci sembran pochi.

Il Sole 24 Ore 08.01.11

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“Vi spiego perché adesso il 150° dell’Unità diventa un passaggio politico delicato”, di Stefano Folli

Fino a ieri il 150esimo anniversario dell’unità d’Italia poteva essere visto in due modi: come un’occasione da passare sotto silenzio e contro cui avviare addirittura un blando boicottaggio (linea leghista); oppure come un evento di scuola, da rievocare con la dovuta dose di retorica per archiviarlo appena possibile (posizione più o meno dichiarata di un ampio arco politico).
Giorgio Napolitano ha scelto una terza via e ora il 150esimo rischia di porre qualche scomodo interrogativo ai vari attori e comprimari del palcoscenico politico. La terza via del presidente riguarda il rispetto dovuto al Tricolore in quanto vessillo nazionale. Proprio chi crede nel federalismo e quindi nel rinnovamento istituzionale dovrebbe aderire con convinzione ai valori dell’Unità, simboleggiati dalla bandiera. Il federalismo, in sostanza, ha bisogno di una solida cornice unitaria.

Il sottinteso è fin troppo chiaro. Chi non rispetta il Tricolore manifesta il suo disprezzo verso l’Unità. Ma chi non crede all’Unità non vuole nemmeno un autentico federalismo e il rinnovamento istituzionale: vuole una forma di secessione, più o meno mascherata. Napolitano questo non lo ha detto, ma era la preoccupazione implicita nel suo discorso di Reggio Emilia. La città dove nel 1797 il Tricolore sventolò per la prima volta come bandiera della Repubblica Cispadana.

Repubblica Cispadana… L’area geografica e quel nome così evocativo dovrebbero suggerire qualcosa ai leghisti. Purtroppo essi tendono invece a crogiolarsi in un revisionismo anti-risorgimentale alquanto sconfortante. E anche poco utile, visto che ormai il federalismo fiscale, salvo clamorosi colpi di scena, è alle porte. Quindi anche l’affermazione di Bossi («festeggeremo l’anniversario dopo che avremo superato il centralismo») sembra un gioco di parole. In realtà la Lega è a un passo dal vincere la sua battaglia (semmai si tratterà di capire in seguito se il federalismo funzionerà, se servirà a razionalizzare le spese, se cambierà in meglio la vita dei citadini).

Che senso ha quindi ostentare fastidio verso la bandiera nazionale , come accade spesso negli ambienti del Carroccio? La risposta è solo una: lo spirito anti-unitario serve alla Lega, ai vari livelli, per mantenere la compattezza dell’elettorato. Come è noto lo stesso Bossi, in anni ormai lontani, ma non remoti, usava insultare il Tricolore. Ma proprio questa esigenza dimostra l’ambiguità del federalismo nella concezione leghista: uno strumento per rafforzare l’unità del paese o per prepararne la divisione?

L’uscita di Napolitano è destinata a fare chiarezza sul nodo politico , nell’interesse stesso della Lega. Il partito rappresenta ormai una porzione talmente ampia dell’elettorato settentrionale che può solo trarre maggiore forza da una prova di maturità. Tanto più che il capo dello Stato non ha riproposto vecchi stereotipi. Al contrario, a Forlì si è spinto a parlare di «vecchie tare che ci siamo portati dietro». E della necessità di «superare il vizio d’origine del centralismo statale d’impronta piemontese», attuando il titolo V della Costituzione.
Sarà per questo che la Lega ha tenuto bassi i toni polemici. Anzi, il ministro Calderoli ha persino ringraziato il presidente. L’esponente leghista cammina un po’ sulle uova, ma è evidente che il Carroccio non vuole incidenti di alcun tipo prima del «sì» definitivo al federalismo. Ma il punto politico ora è sul tavolo.

Il Solo 24 Ore 08.01.11

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«Berlusconi e i ministri restano a casa», di Ugo Magri

ROMA
Con il governo appeso a tre voti, figurarsi se Berlusconi farà il gesto ardito di contrariare Bossi, sgomitando per mostrarsi in prima fila alle celebrazioni dell’Unità d’Italia. E difatti ieri, a Reggio Emilia, il Cavaliere s’è ben guardato perfino dall’inviare un messaggio, una lettera, una delegazione in sua vece. A parte l’onnipresente Letta, che incarna il galateo della Repubblica, è come se i ministri si fossero passati la voce: meglio snobbare l’evento. Alla festa del Tricolore non se ne è vista traccia. Alcuni ministri in privato si giustificano, «l’invito del Quirinale era di routine, nessuno ha fatto sapere che Napolitano ci teneva», quasi che fosse necessaria una speciale supplica del Colle. Tutte scuse, rispondono da lassù. Il vero nodo politico del Centocinquantenario che non decolla sta nella Lega. Sempre più padrona del campo, padrona anche delle idee.

Ma c’è dell’altro che motiva il disinteresse del premier, perennemente distratto quando Bondi e La Russa (con quel pizzetto risorgimentale che molto richiama Bixio) hanno posto il problema, mesi fa persino in Consiglio dei ministri, però con scarso successo. La prima spiegazione suggerita dai consiglieri del Principe è quasi antropologica. Berlusconi, imprenditore brianzolo votato al «fare», aborre l’«ipocrisia» delle ricorrenze poiché ritiene che rimboccarsi le maniche giovi all’unità d’Italia più di mille pompose orazioni. Completano il pensiero i soliti detrattori, segnalando che forse è meglio così, perché mai Silvio si è appassionato di storia patria. E quando ha ritenuto di cimentarsi (con l’eccezione del discorso alto e nobile il 25 aprile 2009), dalla sua bocca sono usciti simpatici lapsus tipo «Romolo e Remolo», oppure gaffes involontarie sul papà dei sette fratelli Cervi, che lui sarebbe andato volentieri a trovare se non fosse morto 30 anni prima come ben sa Napolitano, il quale ieri ha reso visita alla casa-museo.

Non deve fare scandalo. La ricca bibliografia sul Cavaliere concorda che il segreto della sua leadership sta proprio nel «pensiero debole». Berlusconi guarda ostentatamente avanti, e considera il passato come un fardello, una malinconia. Infine c’è l’ultima spiegazione, che riporta alla battaglia politica e al complicato ménage con Bossi: il nostro premier ritiene che la maniera più stolta per frenare la Lega è quella di farci a zuccate. La tattica più astuta consiste viceversa nell’ignorarne le «mattane», specie quando evocano Roma Ladrona, il separatismo e, dio non voglia, i fucili. Come con i pargoli maleducati, «bisogna far finta di nulla». E’ un precetto che i gerarchi berlusconiani confessano di avere sorbito decine di volte: «Più noi ribattiamo a Bossi, più facciamo il suo gioco». Sulle celebrazioni del Centocinquantenario, che s’intrecciano pericolosamente con l’ultimo miglio del federalismo fiscale, il Cavaliere ha deciso: la Lega dica quello che vuole, «noi non reagiremo».

Non risulta che si sia speso per allargare il budget delle manifestazioni pubbliche. Solo l’impegno di La Russa e Bonaiuti ha permesso di mandare in onda uno spot targato presidenza del Consiglio. Nè pare che Berlusconi abbia insistito con Bossi perché intervenga personalmente a qualche evento celebrativo, se non altro per far contento «il vecchio del Colle». E d’altra parte, osserva un consigliere accorto come Quagliariello, «tutto sommato la Lega sta dimostrando una capacità di tenuta, come forza di governo, che molti mai avrebbero sospettato. Bossi contribuisce a tenere unito il Paese in una fase difficile. Pensiamo da dove arriva, e quanta strada ha fatto, prima di pretendere che intoni l’Inno di Mameli…».

da www.lastampa.it