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"Quelle parole che fanno crescere l'Italia", di Massimo Gramellini

Da La Stampa di Torino, pubblichiamo parte dell’intervento al Quirinale per la Giornata dell’informazione

“Nel preparare con Carlo Fruttero l’almanacco dei 150 anni di storia italiana, ci siamo imbattuti in tanto giornalismo di qualità. Certo, erano tempi non avari di retorica e nelle cronache dei funerali di Vittorio Emanuele II si scioglievano inni «al più valoroso fra i Maccabei». Ma i giornali erano anche capaci di parlare chiaro al potere, come Matilde Serao che in una lettera aperta al ministro Depretis denunciava le condizioni igieniche dei bassi di Napoli, chiedendo di smetterla con «la retorichetta del mare glauco e del cielo di cobalto». E furono i giornalisti a rivelare i primi scandali finanziari dello Stato unitario e a tratteggiare il profilo di Bernardo Tanlongo, presidente della Banca Romana, amico di cardinali e massoni, inesausto dispensatore di mance e di barzellette, che ha fornito il prototipo ai furbetti del quartierino.

Furono sempre i giornalisti a strappare il velo di tanti inferni. Come quello dei carusi, i bambini impiegati nelle miniere di zolfo della Sicilia, la cui scoperta si deve a un gruppo di reporter che riuscirono a intrufolarsi in quegli antri bui per raccontare il supplizio dei piccoli schiavi venduti dai genitori per un sacco di farina e costretti a spezzarsi la schiena 12 ore al giorno in cambio di un pezzo di pane e cipolla. Vi devo dare una notizia: il gossip non lo abbiamo inventato noi. Il giornalista-fustigatore Pietro Sbarbaro distrusse la carriera del ministro degli Esteri Mancini, rivelando che la moglie lo aveva trovato a letto con la cameriera: vistosi scoperto, lui le aveva gridato: «Scusami cara, ero convinto che fossi tu». E quando il ministro degli Interni Francesco Crispi venne accusato di bigamia, fu un giornale dell’epoca, «Il Piccolo», a costringerlo alle dimissioni attraverso una campagna di stampa basata sulle famose «Sei Domande».

(…) Purtroppo la mancanza di una vera opinione pubblica – assenza determinata da secoli di servaggio e da un tasso altissimo di analfabetismo – ci ha fatto contrarre due virus dai quali dobbiamo guardarci ancora oggi. Il primo è l’attitudine a parlare al Potere anziché al Lettore, usando un linguaggio per iniziati. Il secondo difetto, per certi versi l’opposto dell’altro, è la deriva populista che porta a seguire gli umori della piazza anziché a indirizzarli. L’esempio più drammatico si ebbe alla vigilia della prima guerra mondiale, quando quasi tutti i giornali (con l’eccezione di quelli socialisti e de La Stampa del giolittiano Frassati) cedettero alla bramosia interventista di una minoranza chiassosa che forzò la mano al capo dello Stato e al Parlamento. Una prova generale di quanto sarebbe accaduto pochi anni dopo, a opera di un giornalista che la leva del populismo sapeva manovrarla assai bene: Benito Mussolini.

Ma se si osserva dall’alto la storia del giornalismo italiano di questo secolo e mezzo, ci si accorge che fra tante luci e immancabili ombre si stende una linea solida e coerente che arriva fino ai giorni nostri. Si dice che gli italiani non abbiano senso dello Stato, e che semmai sia lo Stato, talvolta, a fare loro senso. Ebbene, contro questo luogo comune, che come tutti i luoghi comuni contiene qualche elemento di verità, il giornalismo migliore ha sempre combattuto, pagando prezzi pesanti durante gli anni di piombo. Perciò vorrei chiudere questo breve viaggio nel tempo con una pagina del nostro almanacco in cui Carlo Fruttero racconta il sacrificio di un suo carissimo amico. E lo fa come nelle poesie di Spoon River, lasciando che a raccontare la storia sia lo stesso protagonista.

«(…) Mal di denti. Così sono uscito dall’ufficio e sono andato dal dentista senza la scorta, che avevo da pochi giorni. E loro mi hanno seguito fino a casa, hanno aspettato che parcheggiassi l’auto in corso Re Umberto e quando poi sono entrato nel portone, in due, forse in tre, mi hanno puntato le pistole. Il rimbombo in quella casa borghese, in quel quartiere borghese. Eliminato “un servo dello Stato” con quattro colpi. Tutti sono venuti, tutti hanno sperato, ma io sapevo che non c’era speranza, il dolore era troppo forte. Avrebbero potuto essere pallottole fasciste o naziste, quando ero nella lotta partigiana con Giustizia e Libertà, e invece muoio a più di sessant’anni per mano di questi idioti, sì, degli idioti ignoranti. È così che li giudico, alla fine.

Certo, lo Stato di cui sono un servo non è uno Stato ideale, ma è in grado di difendersi senza legge speciali, con le armi legali che già possiede e che noi gli abbiamo dato in anni lontani. “Né con lo Stato né con le Br” dicono alcuni personaggi eminenti e improvvidi, ma è una neutralità impossibile: lo Stato per quanto debole, zoppicante, carente, talvolta iniquo, non si può mettere sullo stesso piano di gente che non ha un’idea dietro l’assassinio. (…) Di me diranno che sono un eroe, anche se ho vissuto tutta la mia vita lontano da ogni enfasi. Ho fatto il giornalista, ho commentato i fatti politici che mi passavano davanti, non ho mai auspicato la morte di nessuno. Una vita tutto sommato abitudinaria, moderata, passata a lavorare, leggere, studiare, scrivere, giorno dopo giorno. Ma non è bastato a salvarmi da quel rimbombo nell’androne, da quegli idioti ignoranti. Il 29 novembre 1977 è arrivata la fine, dopo tredici giorni di agonia. Sono stato Carlo Casalegno, vicedirettore de La Stampa di Torino».

da www.lastampa.it