attualità, politica italiana

"E se il Cavaliere uscisse di scena", di Ilvo Diamanti

E se domani Berlusconi uscisse di scena, travolto dagli scandali e dalle inchieste giudiziarie, più che dall´opposizione politica. Lasciato solo dagli alleati. Dalla Lega, che ha già annunciato l´intenzione di andare subito al voto, se il federalismo si arenasse in Parlamento. Da Umberto Bossi, sempre più infastidito dallo stile di vita del Premier (a cui consiglia di «darsi una calmata»). Criticato dagli industriali, che considerano l´azione economica del governo insufficiente contro la crisi. (Lo ha ribadito anche ieri Emma Marcegaglia.) Dalla stessa Chiesa vaticana, fino a ieri indulgente seppure imbarazzata. Danneggiato dall´immagine internazionale, a dir poco logora. Infine, elemento definitivo e determinante, sfiduciato dagli italiani, dai suoi stessi elettori. (Nonostante i sondaggi degli ultimi giorni non suggeriscano grandi spostamenti elettorali. Segno di un´assuefazione etica molto elevata).
Anche in queste condizioni, Berlusconi, probabilmente, resisterebbe fino in fondo. («Non mi piego, non mi dimetto, reagirò», ha ripetuto due giorni fa.) D´altronde, ha sempre dato il meglio (o forse il peggio) di sé di fronte alle emergenze. Sull´orlo dell´abisso. Come il barone di Münchausen, che riesce a sollevare se stesso e il proprio cavallo, tirandosi su per il codino.
Eppure “se” – e sottolineo “se” – all´improvviso Berlusconi uscisse di scena, messo all´angolo da coloro che hanno, da tempo, atteso (e preparato) questo momento. Ma anche da molti “amici” e cortigiani, come avviene sempre al potente, quando cade in disgrazia. Allora: cosa accadrebbe?
In primo luogo, si sfalderebbe la maggioranza. Quel patto tra partiti e gruppi raccolti intorno a lui – e da lui – dal 1994 fino ad oggi. La Lega, An, i gruppi post e neodemocristiani che ancora non si sono allontanati da lui, confluendo nel Terzo Polo.
Il Pdl, in primo luogo. L´ha detto a “Ballarò” il ministro Angelino Alfano, tra i più vicini al Premier. Senza Berlusconi, il Pdl non potrebbe esistere né resistere. Perderebbe senso e fondamento. Identità, organizzazione e risorse. Come un ghiacciaio enorme, dove stanno un po´ meno di un terzo degli elettori, ma una quota molto più ampia del sistema mediatico, della classe politica e amministrativa – centrale e locale: si scongelerebbe.
Poi, la Lega. Se ne andrebbe per conto proprio, attirando gli elettori, i gruppi economici e sociali, ma anche gli amministratori e i leader vicini alla sua proposta politica. Giulio Tremonti, per primo.
Nel complesso, si spezzerebbe quel puzzle fragile che Berlusconi aveva composto. Perché, va detto, Silvio Berlusconi è l´unico ad aver “unito” l´Italia, nella Seconda Repubblica. A modo suo, intorno a sé. Questa base elettorale e questo ceto politico, un tempo distribuito su base nazionale, nel passaggio da Fi al Pdl si sono meridionalizzati. Si disperderebbero. In che direzione? Nel Centro-Sud: un elettorato frammentato e instabile, largamente controllato da lobby locali, singoli leader, mediatori politici. Probabilmente si frazionerebbe ulteriormente, in tante piccole leghe meridionali. Nel Nord, invece, la Lega rafforzerebbe il suo radicamento e il suo peso elettorale. Non aderirebbe a una nuova alleanza di centrodestra con un partito rimasto senza leader. Ma, probabilmente, investirebbe, senza troppe remore, nell´indipendenza della “Padania”. Approfittando della crisi economica e delle difficoltà dell´euro.
Il centrosinistra, perduto il “nemico”, si rifugerebbe nella sua fortezza di sempre. Le Regioni del Centro. Per non vedersi schiacciato dalla Padania, dal governo romano – di centrodestra – e dal Sud, fiaccato dalla crisi e dalla frammentazione.
Insomma, l´uscita di scena di Silvio Berlusconi accentuerebbe le divisioni del Paese, che egli, in questi anni, ha coltivato e dissimulato. E aprirebbe un vuoto di potere: politico e di senso. Visto che l´intera architettura di questa Repubblica è stata concepita da lui. E si regge su di lui. Perché Silvio Berlusconi è l´inventore della Seconda Repubblica. Colui che ha imposto la personalizzazione e il marketing in politica. Il format a cui si sono uniformati tutti i partiti, a destra e a sinistra. Berlusconi: ha alimentato l´anticomunismo e, in modo simmetrico, l´antiberlusconismo. Insieme al contrasto Nord-Sud e all´orientamento anti-romano, affermati dalla Lega, le fratture “ideologiche” più importanti degli ultimi 17 anni.
Se Berlusconi uscisse di scena ora, all´improvviso, non solo la maggioranza, ma anche l´opposizione di centrosinistra – il Paese stesso – si troverebbero spaesate. Il sistema politico italiano, scosso da conflitti politici e di leadership, perderebbe la bussola. Il corpo dello Stato, riassunto, insieme al corpo politico e sociale, rischierebbe di decomporsi, insieme al corpo del Capo, che li riassume tutti in sé. (Come ha evocato Mauro Calise, nella nuova edizione de Il Partito personale, edito da Laterza).
Lungi da me l´intenzione di legittimare l´esistente. Anche nelle “democrazie del pubblico” (come le chiama Bernard Manin, nel volume pubblicato dal Mulino), diffuse in Europa e in Occidente, Berlusconi costituisce un´anomalia. Per il grado di concentrazione dei poteri che ha realizzato. Lui, capo del governo, del partito maggiore, proprietario del più grande gruppo mediatico privato, ma influente anche sui media pubblici. È giusto superare questa anomalia, che condiziona da troppo tempo la nostra democrazia. Al più presto. Anche perché Berlusconi appare, da tempo, indebolito. Insieme a lui, si sono indeboliti: il sistema politico, il senso civico, per non parlare del rapporto con lo Stato e lo stesso Stato. Già tradizionalmente deboli, fra gli italiani. Si sono indeboliti anche i fragili legami di solidarietà che legano un Paese tanto diviso.
Tuttavia, occorre essere consapevoli che se Berlusconi abbandonasse la scena politica, per ragioni politiche o giudiziarie (o per entrambi i motivi), i problemi del Paese non si risolverebbero. All´improvviso. Ma si riproporrebbero seri e gravi. Non meno di adesso. Non ne usciremmo, non ne usciremo, senza realizzare le riforme annunciate ed eluse, dopo la fine della prima Repubblica. Ecco: se Berlusconi uscisse di scena, occorrerebbe ri-costruire, ri-formare e ri-fondare la nostra democrazia attraverso “un processo costituente condiviso”. Rinunciando al vizio e al brivido dell´anomalia. Anche se una “democrazia normale” non è nelle nostre corde, nella nostra tradizione.
Ma, personalmente, mi sarei stufato degli effetti speciali.

La Repubblica 24.01.11

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“Marina B. e le prove di successione”,
di FILIPPO CECCARELLI

ALL´INSEGNA dell´indicibile, “Scende in campo Marina B.” Così annunciava ieri in prima pagina il Giornale della Real Casa. Laddove l´indicibile e il non-detto stanno nel fallimento politico, nel declino biologico e nell´ormai evidente inadeguatezza psico attitudinale del presidente sovrano, malato di quella cosa lì.
Mentre nella rievocata possibilità che veramente scenda in campo sua figlia, Marina B., anche stavolta e di nuovo pare di cogliere quella garanzia di continuità che spesso solo la successione del sangue riesce ad assicurare ai regni in pericolo.
Il messaggio oltretutto è avvalorato, al di là di qualsiasi imminente smentita, dalla grande foto a colori di lei che fissa il lettore con un´espressione piuttosto famigliare. Nel senso che quell´immagine levigatissima, quegli occhi distanti, quelle labbra rese sensuali, e il colore non proprio naturale dei capelli, il vago sorriso di chi la sa lunga, la pelle troppo liscia, e in fondo anche il combinato disposto orecchini-collana e perfino il misterioso fondale che condivide con l´ignaro Saviano, ecco tutto grida al mondo che Marina è tutta sua padre, una specie di giovane Berlusconi con parrucca da donna, un promettente e chirurgico photo-shop di quelli che si adattano al potere in questo tempo di indizi mirabolanti e di riemersioni arcaiche.
Che sia la volta buona, e quindi prossima l´abdicazione di re Silvio, è difficile dire. Di solito queste scelte si praticano e non si annunciano, ma il parlarne ripetutamente vuol dire sempre qualcosa, se non altro un tentativo di saggiare il terreno, o di far abituare all´idea.
E dunque: Marina, Marina e Marina. Già due mesi orsono in ambito berlusconiano (ancora Sallusti, Prestigiacomo, Stracquadanio) la eventuale soluzione della primogenita presidentessa Mondadori, nonché consigliera di Mediobanca, ben piazzata nelle classifiche Forbes sulle donne potenti e fresca vincitrice di Ambrogino d´oro, fu larvatamente segnalata e sollecitata – e non esattamente per i suoi meriti, che pure ci saranno, ma per la situazione di grave disagio in cui si era andato a cacciare l´anziano leader e genitore con il Ruby-gate.
Erano pure i giorni di Pompei, neanche a farlo apposta, e in quella specie di sogno selvaggio che da qualche tempo sono le cronache politiche dei giornali andavano affollandosi le più torve e buffonesche ricadute del bunga bunga. I primi filmati dei convogli di Lele Mora a Villa San Martino; la nota di smentita ufficiale attraverso cui il ministro dell´Economia Tremonti negava di aver usato il termine “puttanella” in un colloquio con l´ex presidente della Camera Casini; la possibilità che Noemi facesse causa a Ruby per alcune sue incaute valutazioni; l´arrivo nei pornoshop dell´antesignano video ispirato ai festini di Villa San Martino, starring Richard Malone e Nikki Cox; la risposta forse tardiva, ma certo originale del leader del Pd Bersani che aveva ritenuto di partecipare a una festa da ballo al centro anziani di Pietralata, festa significativamente intitolata: “Chi Ruby e chi la Rumba”.
Ecco, in questa temperie di gioviale e imbarbarito estraniamento bastò che Marina insorgesse a difesa del padre contro una battutaccia dell´onorevole Bocchino perché l´ipotesi di un passaggio di potere in famiglia si affacciasse dalla finestra che dà sullo scombinato paesaggio politico italiano. Poi però dalla porta maestra dell´azienda berlusconiana, cioè dalla Fininvest, tale possibilità venne risolutamente esclusa con un comunicato che diceva: “Dobbiamo ribadire che non c´è nulla di vero. Si tratta di semplici illazioni e di ipotesi che non sono mai esistite”.
Il problema è che di norma i poteri tengono più a loro stessi che al resto, compresa la verità, per cui sul tema volle dire la sua anche l´altro principe, Piersilvio, che pure lui smentì il “rischio” – questa la parola usata – di una monarchia. Insomma, l´unico a non parlare fu il padre-presidente, e la scelta ereditaria ritornò dunque fra le mura di Arcore, dei palazzi Chigi e Grazioli, oltre che di Cologno e di Segrate. Da cui l´ha involontariamente ritirata fuori Saviano, con cui Marina nuovamente se l´è presa, all´insegna dell´”orrore”, iperbolico sentimento mai come oggi profuso a piene mani.
Per molte cose lo si può provare, in effetti, anche per i rotocalchi che nel duplice sforzo di divertire gli editori divertendoli ne mostrano i corpi nudi e raccontano di come festeggino i loro pubblici e privati compleanni “inscenando per gli amici e i parenti anche una scherzosa lap-dance con una scopa”, ah, che simpatico! A questo punto, e con l´aria che tira, il giornalismo politico non si sente in condizione di escludere nulla.

La Repubblica 24.01.11