memoria

"L’economia nazista e la Shoah dei disabili", di Massimiliano Boschi

Gusci vuoti», «zavorra umana», «vite non degne di essere vissute», sono quelle che il Terzo Reich decise di eliminare a partire dal 1933. Persone che non solo era lecito uccidere, ma addirittura utile. Perché erano un costo per le casse della Germania nazista e perché «inquinavano» la presunta razza ariana. Il retroterra alla giustificazione dell’ eliminazione delle «vite indegne» fu garantito dalla macchina propagandistica del Terzo Reich. Vennero affissi migliaia di manifesti rappresentanti l’immagine di un «minorato» assistito da un infermiere. In alto campeggiava una cifra a caratteri cubitali: «60.000 marchi» di seguito la spiegazione: «Ecco cosa costa una persona che soffre di malattie ereditarie alla comunità tedesca».
Per spiegare meglio il concetto arrivarono i libri in cui si sottolineava come «il costo di cura per una persona geneticamente malata è otto volte superiore rispetto a quello di una persona normale. Un bambino “idiota” costa quanto quattro o cinque bambini sani. Il costo per otto anni di istruzione normale è di circa 1.000 marchi. L’istruzione di un bambino sordo costa circa 20.000 marchi. In tutto, il Reich tedesco spende circa 1.2 miliardi di marchi ogni anno per la cura ed il trattamento medico di cittadini con malattie genetiche». Ergo, meglio risolvere il problema alla radice.
Anche il cinema fece la sua parte: in Opfer der Vergangenheit (vittime del passato), vennero alternate le immagini dei sani e giovani «ariani» con i «degenerati» ospiti dei manicomi. Il film venne proiettato in 5.300 sale del Reich. Un altro film del 1941, Ich Klage an (Io accuso) si spinse più in là e provò a mettere in buona luce l’idea dell’eutanasia di Stato che stava dietro al progetto denominato «T4» che prevedeva la soppressione o la sterilizzazione di persone affette da malattie genetiche o da più o meno gravi malformazioni fisiche e mentali. Si calcola che a seguito del progetto T4 vennero uccisi circa 70.000 «malati di mente», migliaia i bambini, probabilmente più di cinquemila. Erwin Polz, Heinz Frank e Horst Schmidt furono solo tre di queste giovani vittime. Sono ricordati ancora oggi perché citati nel libro di Alice Ricciardi von Platen Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente. I primi due furono uccisi a seguito dell’insistenza dei loro genitori: i medici nazisti, infatti, avevano considerato le loro vite degne di essere vissute, almeno per un altro po’ di tempo. Ma i loro genitori presentarono apposita istanza per chiedere che i loro figli venissero eliminati. Per il bene del Reich e della razza ariana. Furono accontentati.
Horst Schmidt, due anni , venne, invece, classificato come «soggetto idiota non recuperabile» dal direttore dell’ospedale psichiatrico di Eichberg che così si espresse rivolgendosi all’apposita commissione: «Il bambino ha occhi mongolici, plica mongolica, lingua tozza, orecchie mal modellate, naso schiacciato, zigomi sporgenti, eccessiva lassità delle articolazioni; è psichicamente ritardato, non è in grado di alimentarsi, né di stare seduto o in piedi. Tuttavia è affettuoso». La risposta del responsabile della Commissione non è che la raggelante comunicazione burocratica della condanna a morte di un bimbo di due anni: «Oggetto: trattamento dei bambini idioti. Con riguardo alla Sua comunicazione relativo al bambino Horst Schmidt, nato l’8.10.1942, Le comunico che non vi è più alcun ostacolo al trattamento del bambino in base alle circolari del Signor Ministro degli interni del Reich, relativamente del 18/8/1939 e del 1/7/1940. La prego di voler comunicare a suo tempo, l’esito del trattamento. Heil Hitler».
Solitamente, per procedere all’eliminazione delle giovani vite i medici scioglievano nel tè dei bambini un barbiturico, il luminal, in dosi via via crescenti, fino a che non sopraggiungeva il coma e quindi la morte. Per i soggetti più resistenti, come ha raccontato Robert Jay Lifton nel suo I medici nazisti, si passava alla morfina o alla scopolamina. Per gli adulti, invece, si pensò a qualcosa di più pratico: un’iniezione letale o la camera a gas. Allo scopo erano stati predisposti appositi centri di eliminazione dove un medico provvedeva all’iniezione o, successivamente, ad aprire il rubinetto del gas. Un modello che venne modificato ed esteso ai campi di concentramento, soprattutto nei territori occupati durante la guerra. Dall’eutanasia di Stato che colpiva i malati di mente, si passò al genocidio degli ebrei. I manicomi aprirono la strada ai campi di sterminio, la fine della guerra lasciò in piedi solo i primi.

l’Unità 27.1.11

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“E se la memoria si trasforma in industria?”, di Tobia Zevi

Viviamo un’epoca strana, schizofrenica. Siamo immersi in un flusso costante di informazioni, e sempre meno capaci di formarci un’opinione consapevole. Il numero di libri pubblicati aumenta perennemente, ma la preparazione reale dei più giovani risulta dalle indagini scoraggiante. Questa situazione produce una divaricazione tra cultura «alta» e cultura «bassa», con reciproco scambio di accuse tra «élitisti» e «mediocri».
Cosa c’entra la memoria? A dieci anni dall’istituzione del 27 gennaio, molti risultati sono acquisiti. La sensibilità è maggiore, soprattutto grazie all’impegno straordinario di testimoni e insegnanti. Però. L’ignoranza rimane dilagante, il fenomeno carsico del negazionismo si perpetua (e una legge servirebbe a poco), molte iniziative sono discutibili. Mi chiamano spesso da varie parti d’Italia: «Mi manderesti un ragazzo a testimoniare? Anche un’oretta può andare…». Ma testimoniare cosa?
Al proliferare di manifestazioni di ogni genere si contrappone una ricerca storica sempre più raffinata – valga come esempio Uomini comuni di Cristopher Browning -, più incline a mostrare contraddizioni e specificità. Secondo lo storico David Bidussa il 27 gennaio non si inserisce in un «calendario civile», una serie di momenti cruciali e condivisi della nostra storia. Questa ricorrenza fa piuttosto parte di un «calendario vittimario» (Giovanni De Luna) per sua natura non collettivo.
Il medesimo iato c’è in letteratura. Se Aharon Appelfeld, decano della letteratura israeliana, riteneva impossibile raccontare il lager, Primo Levi fu capace di elevare il campo di sterminio alla forma di scrittura più alta. Una prosa che, confrontandosi con il male assoluto, doveva ricostruire una propria grammatica specifica, descritta magnificamente nei saggi di Pier Vincenzo Mengaldo.
La letteratura della Shoah nasce dunque consapevole della estrema difficoltà teorica e pratica, e il tema rimane attuale grazie a grandi autori come Daniel Mendelsohn. Nel frattempo, però, la Shoah è anche genere letterario. Non è colpa degli scrittori. Ogni autore ha diritto a essere giudicato per la qualità letteraria della sua opera. Ma il fenomeno resta. Ho letto recentemente Blocco 11 di Piero Degli Antoni (Newton Compton, pp. 248, euro 12,90), un thriller ambientato in un lager assai simile ad Auschwitz. Il volume, ben scritto e assai scorrevole, presenta una vicenda chiaramente fittizia: il comandante del campo rinchiude per una notte dieci prigionieri nella lavanderia, chiedendo loro di selezionare chi debba essere fucilato. Attraverso dialoghi serrati e trasformazioni dei personaggi il testo giunge a una conclusione inaspettata, confermandosi avvincente.
Ma perché ambientare questa storia ad Auschwitz, e non, per esempio, in una prigione del Cile di Pinochet? Perché la Shoah tira. E quando la Memoria si trasforma in industria risponde alla sua logica, non all’esigenza fondamentale di conoscere il proprio passato.
Se vogliamo che la Memoria sia un monito per i giovani, che i giovani sappiano pensarsi come potenziali carnefici oltre che come potenziali vittime, occorre tracciare un nuovo percorso di conoscenza. Doloroso. Un sentiero che unisca la raffinata disciplina scientifica della Shoah alla Memoria come genere di consumo culturale e politico. Per garantire il futuro della Memoria.

L’Unità 27.01.11