attualità, politica italiana

"L'Italia non risponde al telefono", di Bill Emmott

Pochi giorni fa un’intervistatrice tv mi ha chiesto cosa credevo potesse pensare della politica italiana un alieno proveniente da un altro pianeta, un extraterrestre che improvvisamente si fosse trovato a Roma. Una bella domanda, anche se mi sono chiesto se lei vedeva anche me come una sorta di alieno. Forse come commentatore straniero sono davvero una specie di extraterrestre, ma vorrei rilanciare: di fronte alla politica italiana oggi siamo tutti alieni, rispetto ai politici siamo tutti creature di un altro pianeta, italiani o stranieri, giovani o vecchi, di destra o di sinistra. Perciò la mia risposta è che il nostro extraterrestre chiederebbe come mai in Italia c’è così tanta politica e così poco governo. Infatti, se l’Italia fosse l’unico Paese sulla Terra visitato dall’alieno, la creatura dovrebbe concludere che in questo gioco chiamato democrazia la politica e il governo devono essere variabili indipendenti, attività non connesse, e potrebbe dedurne che in Italia il vero governo deve essere altrove, probabilmente in qualche luogo segreto, perché nessuno dei politici sembra avere nulla a che fare con esso.

Ciò che i media internazionali rispecchiano oggi, in realtà, è l’idea, affine ma più limitata, che il grande successo di Silvio Berlusconi, in effetti la vera eredità dei suoi anni a Palazzo Chigi, sia aver finalmente sostituito come cliché favorito tra gli stranieri per l’Italia «La Dolce Vita» con la frase «Bunga Bunga». Tuttavia il danno, come ben comprende il nostro alieno, è molto più grave della semplice sostituzione di una bella immagine cinematografica con uno scollacciato esotismo.

Il danno può essere riassunto adattando la famosa frase detta da Henry Kissinger, quando l’allora segretario di Stato Usa chiese a chi avrebbe dovuto telefonare se avesse voluto parlare con l’Europa. Se si fosse riferito all’Italia di oggi, avrebbe detto che il numero lo conosce, ma nessuno risponde al telefono. Non ha senso, pensano i governi stranieri o le imprese, chiamare l’Italia, perché il governo, e forse ogni iniziativa, non esiste più. I politici, almeno tutti i politici nazionali, si sono lasciati alle spalle il mondo reale. «Povera Italia», come ha detto recentemente il mio ex datore di lavoro, The Economist. La rivista fu anche rimproverata nel 2001, quando descrivemmo Silvio Berlusconi come «inadatto a guidare l’Italia», ma non ci rendevamo conto che la parola cruciale non era solo «inadatto», ma anche «guidare». Né lui né nessun altro nella politica italiana mostra alcun interesse a guidare l’Italia.

Naturalmente gli italiani hanno percepito questo per qualche tempo. Milioni di voi hanno fatto de «La casta» di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo un grande bestseller nel 2007, un fenomeno che in qualsiasi altro Paese avrebbe implicato la presenza di una forza irresistibile per il cambiamento. Ma la politica è proseguita come prima. Solo, peggio.

Che dire dell’economia? Gli analisti hanno speso un sacco di tempo l’anno scorso chiedendosi in cosa l’Italia è diversa dalla Grecia, dall’Irlanda e dal Portogallo, dato che il suo debito pubblico è uno dei più grandi d’Europa in rapporto al Pil. La conclusione popolare, soprattutto con Giulio Tremonti, è che l’Italia è diversa perché non soffre di crisi del settore finanziario, ha un deficit di bilancio relativamente modesto ed è ancora in grado di onorare i debiti, nonostante un tasso di crescita lento. Quindi questa è una buona notizia.

È tempo di convincersi del contrario. Infatti, sebbene l’analisi sia corretta, la conclusione è errata: in realtà, questa è una cattiva notizia. Perché almeno i governi di Grecia, Irlanda e Portogallo stanno facendo qualcosa sotto la pressione della loro crisi: le riforme sono state tentate. Almeno in Irlanda c’è un’opposizione che sa chi è il suo leader e sa che vuole andare al governo alle elezioni anticipate che si terranno il mese prossimo.

Così come ad altri commentatori mi viene spesso chiesto come possa il presidente del Consiglio sopravvivere a scandali che avrebbero costretto alle dimissioni in pochi giorni qualunque altro leader europeo. La ragione non ha veramente nulla a che fare con il sesso o machismo che viene spesso citato, ancora meno con l’opinione pubblica.

La differenza decisiva tra l’Italia e ciò che sarebbe accaduto in Francia, Spagna o Gran Bretagna è che gli alleati di Berlusconi, all’interno del suo partito e della sua coalizione, non gli hanno ancora chiesto di dimettersi, cosa che altrove i loro omologhi avrebbero già fatto da tempo. Essi non vedono alcuna necessità di farlo e presumibilmente credono di poter ancora trarre beneficio dall’alleanza con lui. Né l’opposizione appare seriamente intenzionata nel tentativo di costringerlo ad andarsene, o di cercare di convincere i suoi alleati, nel Pdl o nella Lega, che i loro interessi potrebbero essere serviti meglio senza di lui. Lo spettacolo piuttosto strano della legge sul federalismo fiscale e relativi dibattiti mettono in luce questa mancanza di urgenza e di determinazione. Dopo tanti anni di discussioni su questo problema, con il disegno di legge principale approvato da quasi due anni e con le scadenze per le leggi di attuazione presumibilmente imminenti com’è possibile che ci sia così poca chiarezza su ciò che davvero significa federalismo fiscale? Non sono solo gli alieni a non riuscire a decifrare il vero significato di questo cambiamento apparentemente così importante.

La domanda che devo continuare a pormi alla luce di questa scena politica triste, paralizzata, del tutto autoreferenziale, è se mi sbagliavo lo scorso ottobre esprimendo speranza e ottimismo nel mio libro «Forza, Italia: come ripartire dopo Berlusconi». Certamente non abbiamo ancora raggiunto il «dopo», ma la mancanza di leadership, o anche del desiderio di averne una, è scoraggiante.

Così, torniamo al nostro alieno e supponiamo che così come è extraterrestre sia anche un economista esperto. Se l’alieno desse un’occhiata ai dati economici dell’Italia, vedrebbe una lista familiare di punti deboli: la crescita economica più lenta rispetto ad altri Paesi della zona euro allargata, la caduta dei redditi delle famiglie; la crescita a rilento della produttività, l’invecchiamento e la stagnazione della popolazione, l’alta disoccupazione giovanile, i disavanzi del commercio della bilancia dei pagamenti, nonostante tutte le dicerie sulle esportazioni italiane (che, contrariamente alla credenza popolare, sono solo al quinto posto nell’Unione europea, sommando beni e servizi, o al quarto solo per le merci).

Ma incontrerebbe anche imprenditori che lavorano giorno e notte per creare e inventare prodotti di alta qualità venduti in tutto il mondo; vedrebbe, dal referendum Fiat, una volontà emergente tra i sindacati moderati e i lavoratori per modernizzare le pratiche del lavoro; vedrebbe le idee, l’energia e la creatività dei giovani e potrebbe essere impressionato dalla forza delle cooperative e delle reti nel lavorare insieme per obiettivi comuni. Soprattutto, noterebbe, nelle sue conversazioni con gli economisti italiani umani, un consenso insolito (per l’economia) su ciò che deve essere fatto.

Il manifesto dell’alieno sarebbe chiaro, insieme forse con la sua strategia di investimento: concluderebbe, come amano dire gli investitori, che in Italia l’«opportunità al rialzo» di una crescita economica più rapida, lungo le linee tedesche, è grande se solo ci potesse essere un accordo per liberare le energie del Paese. L’agenda richiede il passaggio a un diritto del lavoro unitario ma più flessibile; il trasferimento di risorse pubbliche dall’odierno pantano di usi improduttivi a un nuovo sistema di assicurazione contro la disoccupazione; la liberalizzazione dei mercati per i servizi e per le merci così da consentire maggiore concorrenza e innovazione e, per tutti, la riduzione dei costi. E ancora di più, naturalmente, compresa una versione molto più ambiziosa della riforma Gelmini, per trasformare le università in istituzioni di livello mondiale costrette a concentrarsi sugli studenti e sui risultati. Sarebbe un ordine del giorno liberale, non poi così diverso da quello che i leader e gli altri Paesi della zona euro chiederebbero se l’Italia dovesse in effetti trovarsi in una crisi del debito sovrano. Ecco perché una tale crisi non sarebbe una cosa negativa, nel caso dell’Italia.

Un’agenda del genere avrebbe bisogno di una leadership politica. In realtà avrebbe bisogno di politici interessati alla politica e al governo del Paese. Per il momento non lo sono. Eppure, come Hosni Mubarak, che non è lo zio di Ruby, sta imparando in Egitto, non si può contare per sempre sullo status quo.
(Traduzione di Carla Reschia)

La Stampa 30.01.11