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“La grande fuga dall’università ci va solo il 60% dei diplomati”, di Salvo Intravaia

Giovani italiani in fuga dall’università. Mai come quest’anno, lo spread, cioè la differenza, fra i diplomati della scuola superiore e gli immatricolati all’università è stato così alto. A certificarlo è lo stesso ministero dell’Istruzione. Il Ministero, incrociando i dati in suo possesso, ha pubblicato uno studio sul “passaggio dalla scuola secondaria di secondo grado all’università”. Il primo “ad ampio spettro”, dicono da viale Trastevere, sulle scelte di chi prende la maturità.

Nel 2011-2012, il numero di immatricolati negli atenei italiani rappresenta poco meno del 60 per cento del totale dei diplomati dell’anno precedente. Un dato che, sfogliando l’XI rapporto del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario italiano, rappresenta il valore più basso degli ultimi trent’anni. Nel 2010-2011 gli immatricolati sono stati il 64,1 per cento dei diplomati e dieci anni prima si superava quota 70 per cento. Penuria di risorse economiche da parte delle famiglie per affrontare le spese relativea tasse, alloggio per gli studenti fuori sede e libri di testo? O semplice sfiducia da parte dei giovani nelle possibilità di trovare un lavoro anche con il fatidico “pezzo di carta”? «La prospettiva di anni di precariato e stage gratuiti anche per i laureati non è certo incoraggiante per chi deve decidere se proseguire gli studi», dice Michele Orezzi, coordinatore nazionale dell’Unione degli universitari. E aggiunge che anche i tagli alle borse di studio e ai fondi hanno contribuito a scoraggiare i giovani: «Basti pensare che oggi, uno studente su tre che per reddito avrebbe diritto alla borsa di studio- dice Orezzi- non può percepirla per carenza di fondie che, per effetto dei tagli, le università hanno dovuto aumentare le tasse e introdurre il numero chiuso in quasi tutte le facoltà. Si può invertire la tendenza soltanto riprendendo ad investire sui giovani e sull’università».

La stessa distribuzione territoriale del fenomeno sembrerebbe confermare questa tesi: al Sud, dove un maggiore tasso di disoccupazione si accompagna a stipendi medi più bassi, i neoimmatricolati scendono al di sotto del 50 per cento dei diplomati.

Un fenomeno che va in controtendenza rispetto alla richiesta Ue di incrementare il numero dei laureati. Entro il 2020, la percentuale di popolazione con una laurea dei paesi Ue nella fascia d’età 30-34 anni dovrebbe raggiungere quota 40 per cento, ma nel 2010 l’Italia era ancora ferma al 19,8, quattordici punti sotto la media Ue.

Con paesi come Francia, Spagna e Regno Unito che ci surclassano. Ma per centrare l’obiettivo, in primo luogo, dovrebbero essere i giovani a credere di più nella laurea. Come fare se l’Italia è fra le nazioni dove il tasso di impiego dei laureati è fra i più bassi d’Europa? In Germaniae Francia più dell’85 per cento dei laureati di età compresa fra i 25 e i 64 anni lavora stabilmente. Da noi il 72,6 per cento dei laureati è titolare di un contratto. Anche la domanda di laureati sul totale degli assunti da parte delle aziende italiane è scarsa: nel 2011, è stata soltanto del 12,5 per cento, contro il 31 per cento degli Stati Uniti. E forse a scoraggiare i giovani sono anche le basse remunerazioni dei neolaureati. Secondo Almalaurea, la paga media di un laureato di primo livello ad un anno dalla tesi di laurea è di poco superiore ai mille e cento euro mensili. Dopo 10 anni arriva a 1600 euro.
“Ma la laurea dà più chance di impiego e uno stipendio più alto”

La Repubblica 12.03.12

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L’intervista Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea: il calo di immatricolazioni colpa della crisi e dell’assenza di una efficace politica a favore degli studenti

“Ma la laurea dà più chance di impiego e uno stipendio più alto”, di FABIO TONACCI

«La crisi ha demolito l’aumento delle iscrizioni all’università che la riforma del 2001 aveva generato. Ma la laurea rimane il miglior strumento per trovare lavoro e per guadagnare di più». A parlare è Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea, il servizio (gestito da un consorzio di atenei italiani) che immette i curricola nella rete delle aziende. Professore, nel 2011 solo il 59,5 per cento di diplomati ha scelto di iscriversi all’università, contro il 74,5 per cento del 2001-2002. Perché questo calo? «Nel 2001 l’introduzione della possibilità di ottenere un diploma di laurea in soli tre anni aveva convinto a iscriversi sia persone in età adulta, sia i figli di quelle famiglie che non potevano sostenere i costi di un corso di cinque anni o più. L’effetto boom è durato qualche anno. Adesso però la crisi economica e l’assenza di una seria politica del diritto allo studio hanno di nuovo escluso le fasce medio-basse dall’università». Solo un effetto della crisi, quindi? «Anche il forte calo demografico spiega quel dato sconfortante. Nel 2010 si è scoperto che i diciannovenni in Italia erano il 38 per cento in meno rispetto al 1985. E poi il peggioramento delle condizioni occupazionali di chi ha in tasca una laurea ha creato un certo clima di sfiducia verso la carriera scolastica». Ha ancora senso fare degli sforzi economici per mandare i figli all’università? «Sì, perché nonostante tutto il laureato ha ancora più possibilità di trovare lavoro rispetto a chi ha interrotto gli studi. Il tasso di occupazione è superiore dell’11 per cento, dopo cinque anni dalla laurea l’80 per cento dei laureati ha un impiego. È una percentuale molto alta. Secondo i nostri dati, nell’arco della vita chi ha frequentato l’università guadagna almeno il 50 per cento in più di un diplomato. E c’è anche un altro fattore da considerare».

Quale? «Il progresso tecnologico crea nuove professioni. Se un diciannovenne oggi rinuncia ad apprendere, se rinuncia a specializzarsi, tra quattro anni sarà fuori dal mercato del lavoro».

La Repubblica 12.03.12