attualità, cultura

"Perché le nuove generazioni sono rimaste senza futuro", di Benedetta Tobagi

Il presidente Napolitano li ha messi al centro del suo discorso di fine anno. Evidenziando le contraddizioni di un´epoca che sembra togliere speranze e possibilità. Gli anni Cinquanta partorirono la generazione dei ribelli alla James Dean poi venne l´ondata del Sessantotto. Oggi scendono in piazza per gridare che non vogliono pagare la crisi E sono il simbolo non di una rivoluzione ma della nostra angoscia
Il presidente della Repubblica, 85 anni, ha pronunciato ben 19 volte la parola “giovane” e derivati nel suo messaggio alla nazione di fine anno: i dati sul malessere giovanile devono diventare un “assillo comune”, altrimenti “la partita del futuro è persa, non solo per loro, ma per tutti”. I disordini dicembrini, certo, la dimensione internazionale della protesta universitaria e del dramma del precariato, ma le parole di Napolitano attingono a una radice più profonda.
L´immagine dei giovani è sovraccarica di significati simbolici, catalizza le angosce di una società e le sue aspettative per il futuro. Incarna le possibilità di grandezza e di riscatto di un paese: per questo i regimi totalitari erano ossessionati dalla fabbricazione e dall´educazione della nuova gioventù. I giovani sono un ricettacolo di proiezioni ambivalenti, utopie incarnate e specchio del male sociale: a volte si ribellano, più spesso le interiorizzano. Come se non fosse già abbastanza difficile esserlo, giovani, tra pulsioni violente e contraddittorie, slanci di sogno e angosce distruttive. Oggi come ieri: già nel primo Ottocento l´idealismo dei patrioti coesisteva con la moda romantica dei suicidi alla Werther. Una tempesta continua di paura e fiducia, nell´animo di chi è giovane e negli occhi di chi guarda. Dal secondo dopoguerra, quando i giovani si affermano definitivamente come categoria sociologica e soprattutto merceologica, l´ambivalenza si accentua: angeli di cambiamento o demoni che minacciano la morale, la stabilità sociale e l´ordine pubblico? Gli anni Cinquanta partorirono il “ribelle senza causa” Dean, il “selvaggio” Brando, l´allarme per la delinquenza giovanile. Ma the times they are a-changin´, e dopo il primo spavento l´ondata internazionale del ´68 fu presto circonfusa da un alone di ottimismo e positività. Un´eccezione, favorita dalle circostanze materiali: la società dei baby boomer era prospera, fiduciosa e anelava a profondi mutamenti dei costumi. I giovani diedero la spallata decisiva. Nel 1977, dopo gli shock petroliferi, l´afflato dylaniano è già rimpiazzato dalla rabbia punk: “siamo fiori nei cestini della spazzatura, nessun futuro per la gioventù”, decreta il secondo singolo dei Sex Pistols, mentre in Italia molti manifestanti impugnano la P38. Dopo la sbornia consumista dei decenni successivi, da allarme lanciato dai marginali, lo slogan “no future” e la variante ansiogena “quale futuro?” esprimono l´angoscia profonda dei giovani dell´Occidente industrializzato. Ecco la nuova questione giovanile del Primo Mondo, divenuto consapevole che l´eterno progresso era solo un´illusione: il crollo delle aspettative, i giovani che hanno – a ragione! – angosce da adulti, lavoro, mutuo, o da vecchi, come la pensione. Spesso, nemmeno lo urlano in piazza: il che rende tutto più drammatico. I più inconsapevoli si dibattono cercando di riempire un vuoto di senso, prima ancora che di prospettive. La questione giovanile sono anche le dipendenze, i salti dal balcone e i sassi dal cavalcavia, le violenze inspiegabili, i fantasmi nottambuli che muoiono ai rave. La mortifera assenza di desiderio del rapporto Censis di De Rita e il nichilismo analizzato da Galimberti. A confronto di questi spettri, le intemperanze di piazza dovrebbero far tirare un sospiro di sollievo: c´è ancora vita che freme in tanti isolotti emersi nel mare tumultuoso sotto il parallelo dei trent´anni.
Ansia, rabbia, indifferenza: questo rimandano alla società le metafore viventi del futuro. La fuga di giovani all´estero evoca l´immagine dei topi che abbandonano la nave. Pensieri spaventosi: non sorprende che li evitino le nuove generazioni di adulti, che aspirano a sentirsi giovani (liberi, leggeri, deresponsabilizzati, onnipotenti) in eterno. Il nuovo paradosso è la disperazione giovanile che convive col trionfo del mito della giovinezza come bene supremo. La popolazione matura ha il terrore di invecchiare e vampirizza l´allure della gioventù, abbandonando i ragazzi alle loro ombre. Già, è fantastico avere l´energia, le aspettative, il corpo tonico, la leggerezza dei vent´anni con i soldi e le sicurezze materiali di un quasi cinquantenne. “I quaranta sono i nuovi venti!”, recitava la pubblicità di una nuova serie tv. Mai come oggi “sentirsi giovane” dipende poco dal dato anagrafico. È un lusso per chi può permetterselo. Chiaramente, quasi mai i giovani veri, che non a caso scappano sulla Rete e inventano strumenti per condividere gratis musica, film, conoscenze, spazi sociali. Dall´Italia all´Inghilterra, sono scesi in piazza a gridare che non vogliono pagare la crisi di padri preoccupati soprattutto di mantenere il proprio benessere. Da più parti li si accusa di remare contro le riforme, di essere “conservatori”, rispetto ai coetanei che nel ´68 volevano cambiare il mondo. Ma è cambiato il mondo, più che i giovani. Basti pensare alla famiglia: per la maggioranza oggi non è la trappola soffocante dei Pugni in tasca, ma il supporto materiale essenziale e un miraggio irraggiungibile. Ottima la risposta di un 21enne inglese all´editoriale del Guardian che paventava la “politica dei dinosauri”: la battaglia per difendere i principi del welfare e dell´educazione pubblica oggi è “trasformativa”. Anzi, potenzialmente innovativa: perché un giovane che protesta oggi ha già i piedi fuori dalla coperta dello stato sociale, che non ha ancora saputo ripensarsi per accogliere gli ultimi arrivati e aiutarli a giocare la loro partita.

La Repubblica 06.01.11

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“I bamboccioni. Ragazzi per sempre”, di Aldo Nove

Il termine “bamboccione” ha fotografato la condizione del Paese: un neologismo sinonimo di qualcuno che è diventato grande ma vuole restare bambino tra esaltazione della gioventù e impossibilità di crescere. Oggi la categoria si è allungata fino ai 50enni. La chirurgia estetica nasconde quelle realtà che il tempo manifesta sulla nostra carne e che noi rifiutiamo. Ma esiste anche una chirurgia delle parole che nasconde i segni che nel linguaggio manifestano lo scorrere degli anni che passano. Prendiamo la parola “giovane”. È imbarazzante notare come il termine “giovane” tenda oggi a rappresentare individui che giovani non lo sono più. Paradossalmente, negli ultimi anni si cresce per restare o diventare giovani, e se è strano prenderne atto meno lo è ormai viverlo quotidianamente, attraverso tanti piccoli segnali che prendono forma per benevolenza dei mass-media e di un sistema che ai giovani è molto legato.
Forse perché il mercato dei giovani è molto più voluttuario di quello degli adulti, forse perché un mercato del lavoro che non lascia più a nessuno spiragli d´accesso si sente aiutato non poco a considerare come giovani attempati e attempati esponenti di generazioni che forse giovani rimarranno per sempre, con buona pace delle verità morali e delle fiabe che le rappresentano: Pinocchio, insomma, è meglio che resti burattino, e il povero Geppetto si abitui all´idea di mantenerlo fatto tutto di legno come il racconto di Collodi ci ha insegnato perché un burattino di carne non sia mai.
Giovani e burattini dunque nelle mani di un paradossale elisir semantico di eterna giovinezza ma anche indice di consumi impazziti, giochi per quarantenni e programmi d´evasione per cinquantenni che dai e dai la maturità rischiano di non vederla mai: nascere giovani e morire giovani, forse solo più consapevoli (ma consapevoli in quanto individui o in quanto clienti, all´interno di un grande circo che è anche supermercato e notte in cui tutti i pensieri sono coloratissimi, stupendi, pronti da consumare?) di quei bambini che guardano straniati quei neo-giovani di cinquant´anni forse un po´ osceni da vedere ma tutto sommato ottimisti perché giovane vuol dire giovanile e giovanile è segno di salute, energia e non importa se è tutto finto, un po´ di finzione fa bene e se è tanta fa benissimo, se un tempo la religione era l´oppio dei popoli oggi possiamo dire che la giovinezza è l´elisir di lunga vita di una società che vive sulle proprie gratificanti autodefinizioni.
Abituiamoci allora a considerarci ragazzi di cinquantasette anni, a conoscere giovani di sessantacinque: un mondo molto più allegro di quello che potremmo trovare soltanto scivolando su altre parole, come quel “bamboccioni” che di un grande uomo di stato recentemente scomparso è stato forse ciò che superficialmente rimarrà alla memoria di un paese sempre più distratto. “Bamboccione” come neologismo sinonimo di adulto che vuole restare bambino, e il dibattito allora verte tutto sul libero arbitrio, vecchia bestia di ogni sistema filosofico ma anche e più semplicemente nodo indissolubile alla base di tutto ciò che caratterizza l´umano, o quanto d´umano in noi rimane nel mondo in cui viviamo.
Insomma, per farla breve (forse fin troppo breve): ma i bamboccioni ci fanno o ci sono? Gli italiani vogliono restare bambini o “ggiovani” (con due “g”, fa più slang e dunque ancora più giovane) in eterno o c´è qualcosa, là fuori nel mondo d´inizio terzo millennio, che di “nuovi” adulti non ne vuole più sentir parlare?

La Repubblica 06.01.11

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“L´antichità. Ogni cultura ha interpretato diversamente quell´età”, di Marino Niola

Nell´antica Sparta i bambini, già a sette anni, venivano addestrati a reincarnare il modello adulto Così erano sottratti alla famiglia e crescevano con i coetanei fino a diventare soldati, cioè uomini. La giovinezza è solo un´invenzione sociale. È il modo in cui ogni cultura riempie lo spazio tra l´infanzia e la maturità e ne definisce gli step essenziali, i confini che separano un´età dall´altra. Come dire che la parola giovane non significa niente di fisso e immutabile. Ci sono società dove la verde età dura lo spazio di un mattino e società, come la nostra, dove l´evergreen non è un´età ma una condizione permanente, uno stile di vita, addirittura una mentalità. Che, invece di separare le generazioni, le tiene insieme allo stato fusionale, o meglio confusionale. Mentre fino alla metà del Novecento l´adolescenza era una fase transitoria della vita, il tempo dell´attesa e dell´apprendistato. Come dice la parola stessa che deriva da adolescere – la medesima radice di adulto – e quindi indica una crescita in atto, un processo di “adultescenza”. Ai giovani dunque si chiedeva di diventare grandi, posati, con la testa sulle spalle. Futura classe dirigente insomma. Ecco perché se una volta i ventenni sembravano quarantenni oggi, è il contrario, sono i padri ad avere l´aspetto e il look dei figli.
In realtà la categoria dei teenagers è figlia della civiltà dei consumi. Che, dal dopoguerra, inventa questo nome per una nuova fascia di mercato, costruendo così una tipologia sociale inedita che si è progressivamente affrancata dall´anagrafe e dalla fisiologia per diventare l´emblema inquieto della tarda modernità. Non a caso le grandi icone dello star system, dal maledetto Jim Morrison al sempreverde Mick Jagger, fino alle trasgressive Mary Quant a Jane Fonda sono tutti forever young. Emblemi di quella gioventù bruciata, tutta sesso droga e rock and roll, che per la prima volta nella storia contrapponeva apertamente la sua cultura a quella dei padri. Non più imitativa ma alternativa. Non più riproduzione ma contestazione, spesso rivoluzione.
È il Sessantotto, a braccetto con il mercato, a fare da punto di non ritorno, a cambiare per sempre l´agenda delle generazioni, a desincronizzare il timer anagrafico che fino ad allora scandiva inesorabilmente la vita delle persone. Ogni età uno scatto in avanti verso la sospirata indipendenza.
Né più né meno di quel che accadeva nella maggior parte delle società antiche e tradizionali. Che addestravano gli individui sin dalla più tenera età a reincarnare il modello genitoriale. Alcune lo facevano prolungando l´infanzia e l´adolescenza fino ai trent´anni. Come nell´antica Sparta, dove i bambini a sette anni venivano sottratti alla famiglia e crescevano con i loro brothers in arms fino ai trenta, quando diventavano soldati, come dire uomini a tutti gli effetti. Solo allora avevano il permesso di sposarsi e mettere su casa. E così pure le donne, addestrate alla guerra prima che al telaio. Viceversa a Roma si passava quasi senza soluzione di continuità dall´infanzia alla maggiore età. A sedici anni si indossava la toga virile e il tempo delle mele era bell´e finito. I maschi entravano nel mondo del lavoro e le bambine si ritrovavano matrone in quattro e quattr´otto. E senza rughe. Se a Sparta la società rallentava le trasformazioni fisiologiche, a Roma la cultura era più veloce della natura. Proprio come in quei paesi extraeuropei dove le ragazzine, varcata la soglia della pubertà, diventano donne. E non solo metaforicamente, tant´è che si sposano bambine.
Insomma più breve è la giovinezza, più profonde sono le differenze tra le generazioni e tra i generi. Più è lunga, più è leggera e unisex. A Sparta come a Manhattan.

La Repubblica 06.01.11

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“Generazioni tradite”, di Massimo L. Salvadori

In un articolo del 2 gennaio pubblicato su questo giornale a commento del discorso di fine anno pronunciato dal Presidente Napolitano e tanto opportunamente centrato sulla deprimente condizione dei giovani nel nostro paese, Massimo Giannini ha attirato l´attenzione su due aspetti. L´uno attiene ad alcuni dati di fatto allarmanti che documentano questa condizione; l´altro al fatto che l´invito del Presidente ad affrontare finalmente con vigorosa determinazione la questione, non sembra trovare candidati in nessuna parte dello schieramento politico, poiché finora «la politica non ha mosso un dito». Da ciò Giannini è stato indotto a parlare dei giovani italiani come di una «generazione tradita». Per parte mia, vorrei svolgere alcune considerazioni su chi propriamente tradisca i giovani e sulle forme del tradimento: un tradimento che dà luogo a un vero e proprio «genocidio» umano, culturale e sociale.
Il primo tradimento lo commette chi – avendo la responsabilità politica e sociale di sostenere i giovani allo scopo di immetterli proficuamente nella vita civile del Paese – li rende in tanta parte orfani quando li abbandona a se stessi lasciandoli vagare in una società indifferente o addirittura ostile. Esiste, infatti, una paternità naturale, che è quella dei genitori; ma poi, altrettanto importante e decisiva e per molti versi ancor più determinante, vi è la paternità costituita dalle istituzioni e dalle persone preposte a sostenere i giovani dall´infanzia fino a quello che dovrebbe essere il momento giusto del loro inserimento nel mondo del lavoro. Orbene, in Italia si assiste a una vera e propria rinuncia all´esercizio di questa paternità ovvero a un dilagante atto di abbandono.
Il secondo tradimento (l´elencazione non implica una gerarchia di importanza) lo commette chi, a partire dal governo e dai partiti su cui esso poggia, afferma con animo addolorato che si vorrebbe certo trovare risorse adeguate per affrontare i problemi dei giovani, ma che purtroppo, in un momento di pesante crisi dell´economia e con un debito tanto elevato dello Stato, queste sono necessariamente assai limitate. Qui la colpa si accompagna all´ipocrisia. Sicuramente l´Italia non naviga oggi nelle sue acque migliori. Ma è troppo ricordare che la Gran Bretagna costruì il suo sistema del Welfare proprio nei primi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando il paese era letteralmente stremato, e che l´Italia, anch´essa in condizioni difficilissime, pose nello stesso periodo le basi della sua ricostruzione non solo civile ma anche materiale?
Mancano dunque da noi – si dice – le risorse per sostenere adeguatamente i giovani, poiché anzitutto il debito dello Stato proibisce che lo si faccia. Ma non si potrebbero aumentare le tasse a quel 10 per cento che ha continuato ad arricchirsi in un contesto di enorme evasione fiscale e da solo possiede il 45 per cento del reddito nazionale? Può sembrare che con ciò si voglia colpire coloro alle cui doti di api operose si deve se i vizi dello Stato sempre più indebitato sono fortunatamente compensati dalla virtuosa capacità di risparmio degli italiani. Sennonché viene da domandarsi: non è che lo Stato si indebita tanto perché troppa gente si mette in tasca i soldi che dovrebbe in tasse evase alle finanze pubbliche? Che dunque le apparenti virtù di molti risparmiatori in realtà altro non sono se non il rovescio della medaglia di una viziosa evasione, che ha avuto da parte di troppi governi persino un acclamato incoraggiamento (Berlusconi docet) e dalla quale si potrebbero trarre sostanziose risorse?
Sarà radicalismo estremista, ma credo che troppi dei sempre più numerosi suv che vediamo sfrecciare nelle nostre strade costituiscano altrettanti documenti dell´evasione fiscale che mina l´avvenire dei giovani.
Il terzo tradimento lo commettono tutti coloro che contribuiscono a vanificare quel principio di solidarietà sociale e di civiltà – cui si è richiamato il Presidente sottolineandone la natura di «principio costituzionale» – il quale consiste nel superare gli ostacoli che si frappongono a che a tutti i giovani sia assicurata una base di partenza eguale nella ricerca e utilizzazione delle «opportunità» nel momento in cui si aprono al mondo del lavoro. L´attuazione di questo principio è lo strumento essenziale per compensare le diverse condizioni di privilegio o all´opposto di disagio create dal dato originario, senza merito di alcuno eppure così determinante, di nascere in famiglie ricche e colte o all´opposto in famiglie povere e sfavorite. Si tratta dell´«ingiustizia della culla». Ingiustizia, che le società civili sono chiamate a correggere con leggi e riforme adeguate, valorizzando – per motivi sia di giustizia sia di interesse economico e sociale generale – le grandi energie di cui sono naturalmente portatori i giovani grazie a una buona istruzione, a borse di studio ai meritevoli, ai finanziamenti alla ricerca, ecc. Quando, come da noi, si fa ciò in maniera gravemente insufficiente, allora quelle energie si bloccano, si disperdono, e persino si inquinano. I giovani non crescono umanamente. Quelli che possono cercano le vie del nepotismo e della protezione materiale della famiglia che non li fa diventare adulti; quelli che non possono, si sentono lasciati alla deriva e vittime, e nei casi estremi si mettono sulla strada della «solidarietà criminale». La personalità degli uni e degli altri non si sviluppa o ne viene deturpata.
Una società che ciò consente è complessivamente malata. Ben a proposito Giannini cita Bauman, che di fronte al profondo malessere che colpisce, e non solo in Italia, i giovani, ha detto: «Gli abbiamo intossicato il futuro». Giusto, ma bisogna aggiungere che una società che intossica il futuro dei giovani intossica tutta se stessa, che una società come la nostra, pur sempre ricca di tante risorse materiali, la quale riduce i propri giovani alla condizione di frustrati ed emarginati a vario titolo, è insieme ingiusta, stupida e cieca. E perciò il risentimento che i giovani gridano nello spazio pubblico ai sordi è sacrosanto.

La Repubblica 06.01.11